Le chiese cattoliche d’Italia non avevano mai avuto un sinodo nazionale prima di oggi. Ora un’esperienza sinodale è iniziata coinvolgendo mezzo milione di persone in una prima serie di incontri. Non c’è un “progetto”, ed è un bene: nessuna parola d’ordine da replicare, posizioni da conquistare e – meno che mai ora – vantaggi da desiderare per nessuno. C’è da costruire un’esperienza di comunione su cui ci possono essere molti punti di vista, ma che certamente non nasce dall’impreparazione e dall’improvvisazione. Non si deve infatti sottovalutare il rischio che la sinodalità diventi un’etichetta appiccicata pigramente alle cose più disparate. E per sventare un tale rischio serve la pazienza di studiare e di capire. Per questo nasce una “piccola scuola”: ventuno voci autorevoli che parleranno ogni domenica sera dall’8 gennaio al 19 febbraio: vescovi e rabbini, teologi e teologhe, studiosi e studiose. (Fondazione di Scienze Religiose)
Il tema del 12 febbraio scorso, CHIESA ACCOGLIENTE, CHIESA POVERA è stato sviluppato e approfondito attraverso i contributi di:
Cettina Militello, presidente della Società italiana per la ricerca teologica (prolusione)
Francesco Zaccaria, parroco di Savelletri-Fasano – Chiesa accogliente, chiesa plurale
Corrado Lorefice, Arcivescovo di Palermo – “Sinodalità e povertà della chiesa”
Di seguito, il testo dell’Arcivescovo di Palermo:
Piccola Scuola Sinodale, Sinodo e povertà della Chiesa , Bologna 12 febbraio 2023
- L’atteggiamento sinodale
Buonasera a tutti. A voi, care amiche, cari amici, che seguite questa ‘piccola scuola’ di cui tutti siamo discepoli. Ma su questo punto tornerò. Vorrei cominciare da una pagina che ritengo profetica, tratta da uno dei dialoghi avvenuti nell’immediato post-Concilio tra Paolo VI e il filosofo francese Jean Guitton. Il libro venne pubblicato nel 1967. Guitton era un grande amico del Papa. Paolo VI lo aveva nominato uditore laico del Concilio (il primo!) e nel dialogo riflette con lui, interrogandolo sul senso del Vaticano II. Notate: è il Papa che fa le domande. E questo non è senza significato per noi. Così Jean Guitton narra il dialogo in prima persona:
«IL SANTO PADRE: […] Ma ora che il Concilio è finito, quale è stato secondo lei il fatto più importante?
IO: È difficile sapere la vera importanza delle cose via via che succedono. La storia ci presenta avvenimenti spettacolari privi di seguito, e in compenso dei semi, al momento inosservati, che porteranno grandi trasformazioni. Tacito, che pure era un profondo osservatore, non aveva visto nel cristianesimo nascente altro che una disputa tra ebrei. Penso che molti aspetti del Concilio che hanno interessato l’attualità verranno dimenticati presto, mentre si propagherà il seme inosservato.
IL PAPA: E quale sarebbe questo “seme inosservato”?
IO: Il Sinodo.
IL PAPA: Non l’ho ancora riunito.
IO: È istituito, ed è l’essenziale. Molti mi hanno chiesto: come mai ci sono stati pochissimi Concili ecumenici nella storia della Chiesa apostolica? Come mai Pietro non ha riunito più sovente i Dodici per fare con essi un solo corpo, come agli albori della Chiesa?» (J. Guitton, Dialoghi con Paolo VI, Arnoldo Mondadori, Milano1967, 256).
Ecco. Guitton aveva intuito, all’indomani del Concilio, la grande novità del Sinodo. Novità che ritorna adesso, dopo tanti anni, a essere avvertita come centrale nella vita della Chiesa.
Ma cosa deve essere il Sinodo per avviare nuovamente un grande tempo di riforma della Chiesa? Se dovessimo cercare un modello per l’oggi, io lo individuerei nel capitolo 10 degli Atti degli Apostoli. La storia è nota. È il capitolo della seconda Pentecoste, quella a cui Pietro assiste in casa di Cornelio: la Pentecoste dei pagani. Come ricorderete, Pietro si era mostrato esitante rispetto a un’apertura dei cristiani, naturalmente innestati nel ceppo dell’ebraismo, alle culture e alle popolazioni variegate dell’ellenismo greco-romano. Ma l’evento della chiamata in casa di Cornelio, a cui seguirà la discesa dello Spirito su un gruppo di non giudei, lo sorprende e gli provoca un ripensamento radicale. Pietro dice: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga» (At 10,34). È, dal mio punto di vista, un atteggiamento rivoluzionario, ed è alla base del discorso che Pietro farà nel capitolo 11, nella grande riunione sinodale della chiesa di Gerusalemme.
«In verità sto rendendomi conto…»: il punto di partenza del Sinodo è l’umiltà. L’umiltà di una Chiesa che accetta di non sapere, di non essere padrona di verità precostituite, che non ritiene che si sia già detto tutto e per sempre. Una Chiesa che non si pone come acerba e rancorosa maestra, né come gelosa apologeta del proprio spazio identitario, ma inizia a convertirsi poiché si apre alla sorpresa di Dio ed è capace di dire, con Pietro, “non so, non sapevo”. Il verbo greco katalambanomai allude a un intendere, un rendersi conto nel senso del ‘prendere’, dell’‘accadere’ di un incontro, del ‘sorprendere’. Pietro ‘prende’ (così come prende gli animali del sogno), in quanto è preso, è afferrato da un dinamismo che lo supera e da cui è disposto a farsi mettere in questione. Pietro viene collocato dentro un accadimento, un incontro che lo modifica e lo apre a una prospettiva nuova, donandogli occhi diversi sulla sua realtà e sulla storia stessa. Pietro si sorprende, ovvero viene sbalzato dal suo modo di pensare e di sentire usuale, e solo per questo capisce, solo per questo ‘si rende conto’.
Il Sinodo avverrà solo se tutti noi, come Chiesa, saremo disposti a lasciare i panni vecchi, le antiche certezze, le ermeneutiche invecchiate, se ci porremo nell’attitudine di un autentico non sapere. Non il non sapere di Socrate, il non sapere che sa di non sapere e che quindi continua ad essere una forma di controllo, di dominio di sé e di condizionamento dell’altro. No. Parlo qui di un non sapere radicale. Parlo del coraggio di dire: “non so (nel senso che non misuro, non padroneggio) nemmeno il mio non sapere”. E dunque sono aperto, devo ascoltare, ho bisogno dell’altro, degli altri, perché nemmeno il mio non sapere rappresenta per me, per noi, una certezza. Capisco che si tratta di una rivoluzione epistemologica per il nostro modo di concepire il sapere nella Chiesa, ma siamo chiamati a svuotarci delle sicurezze date, a compiere quel movimento di conversione alla “povertà culturale” di cui parlavano durante l’Assise conciliare il Card. Lercaro e don Giuseppe Dossetti, cioè «[…] una speciale applicazione della povertà evangelica proprio al campo della cultura ecclesiastica. […] La chiesa deve avere il coraggio, se è necessario, di rinunziare a queste ricchezze o almeno di non presumere troppo di esse, di non vantarsene e di confidarvi sempre più cautamente: possono non porre sul candelabro, ma nascondere sotto il moggio, la lampada del messaggio evangelico e possono impedire alla chiesa di aprirsi ai valori veri della nuova cultura o delle culture antiche non cristiane, limitare l’universalità del suo linguaggio, dividere anzi che unire, escludere molti più uomini di quanti non ne attirino e ne convincano» (Chiesa e cultura, in G. Lercaro, Per la forza dello Spirito. Discorsi conciliari del card. Giacomo Lercaro, a cura dell’ISR, Dehoniane, Bologna 1984, 227-228).
Povertà culturale della Chiesa significa, oggi, per me, abbandono dei porti sicuri, significa mettersi in mare non avendo un bagaglio precostituito, un quadro già dipinto da abbellire, da decorare, al limite da modificare in qualche dettaglio. Pietro ebbe il coraggio di dire – contro una tradizione di portata millenaria, contro una coscienza solidissima dell’elezione e della continuità tra i cristiani e i giudei – che bisognava voltare pagina radicalmente, che ‘si rendeva conto’ del fatto di essere chiamato, del fatto che la Chiesa tutta era chiamata a un’apertura sconvolgente. Non siamo insieme per sentirci – dice Pietro a Gerusalemme –, per considerarci dalla parte di Dio, perché Dio mette fine oggi a ogni parte, a ogni spazio esclusivo, a ogni riserva. Oggi Dio ha spalancato davanti a me un mondo nuovo, che ci chiede il coraggio di cambiare. È l’umanità tutta, è la creazione tutta che grida oggi, e i credenti sono chiamati a unirsi a questo grido, ad ascoltare queste voci, senza presunzione. Profondamente convinti che la luce e la via vengono solo da questo Spirito che grida nell’umanità e nella natura ferita e che chiede ascolto spassionato e privo di condizioni, l’ascolto di chi non si lascia la scappatoia del sapere di non sapere. Il Sinodo non deve presentare ciò che è saputo e perimetrato ma deve rompere il perimetro del saputo per aprirsi allo sconosciuto.
- Verso dove? Il senso dell’apertura sinodale
Dagli Atti impariamo allora l’atteggiamento fondamentale della sinodalità, l’atteggiamento che permette il Sinodo. Ma dal racconto degli Atti apprendiamo anche il perché di questo atteggiamento, il ‘verso dove’. Chi è Cornelio, chi sono i Cornelio del nostro tempo? Direi in prima battuta che si tratta degli ultimi, di tutti gli esclusi e i senza voce della storia. Questo erano Cornelio e la sua famiglia per i giudeo-cristiani: non degni, non rappresentabili, non accoglibili, e quindi senza volto e senza voce. Pietro li ascolta e cambia. L’ascolto degli ultimi, l’apertura agli ultimi è il motivo profondo del Sinodo. Mi pare un passaggio mai abbastanza sottolineato. Il Sinodo è fatto per fare spazio a tutti quelli che non contano, a tutti quelli che non abbiamo mai ascoltato, a quelli che non sono entrati nel perimetro delle nostre mura. Anche su questo piano non ci sono mezze misure. Pietro non contratta, non fa compromessi, ma coraggiosamente si espone e cambia, e conduce i suoi, a Gerusalemme, al cambiamento che segnerà per sempre la vita della Chiesa. La renderà ‘cattolica’, pronta ad includere tutti. È questo coraggio che dobbiamo riscoprire. Dio non fa preferenze di persone. Dio non è dalla nostra parte. Dio non è solo per noi. La Chiesa non ha l’esclusiva di Dio. È il Dio che ci precede e ci sorprende, che oggi ci chiama al coraggio estremo di fare spazio ai derelitti, ai periferici, ai volti di chi non è mai stato riconosciuto perché non in linea con le nostre leggi; di abbandonare la via della ricchezza del potere. È il Dio di chi non è mai stato riconosciuto solo in forza della sua umanità. E tutto questo non per compiere un’opera buona, ma perché da chi aveva posto ‘fuori’ di sé, proprio da costoro la Chiesa vuole imparare. Chiede di poter ascoltare nella vicenda di Cornelio e dei tanti Cornelio l’appello del suo Signore. Il Sinodo è apertura radicale, umiltà assoluta, ascolto dei poveri di ogni latitudine, per cogliere oggi la novità di Dio.
Credo che questo assunto di fondo si possa precisare, che si possa andare ancora più a fondo nella ricerca dell’identità dei Cornelio di oggi. Sono le donne e gli uomini dell’Africa, massacrati da un modello di sviluppo criminale, offerti come olocausto sull’altare del benessere dell’Occidente, e che noi respingiamo come indesiderati, come nemici. Pietro oggi ci dice che ciò a cui siamo chiamati noi non è appena accoglierli – questo deve essere scontato – ma guardare i loro volti, ascoltare le loro storie e sentire lì Dio che ci parla. Sono loro i nostri maestri. Restituire a questa gente quel che abbiamo rapinato, riconsegnare almeno un po’ di quella dignità predata dentro i lager libici (di cui Dio ci chiederà conto alla fine dei tempi), è – permettetemi di dirlo – dovuto, necessario, minimamente umano. Per la Chiesa queste donne e questi uomini sono la sorgente della voce di Dio, sono le voci che il Sinodo dei discepoli di Gesù deve ascoltare per avere lo stesso coraggio di Pietro.
Ma i Cornelio di oggi sono anche i bambini, le vittime più silenziose e indifese della storia umana. Quei bambini, quei ragazzi, la cui esistenza viene quotidianamente bruciata da una violenza folle, da una mancanza di rispetto abissale. Dalla guerra – penso all’Ucraina martoriata – e da tutte le guerre. Da ogni forma di abuso. È il loro silenzio che oggi dobbiamo ascoltare per non rimanere noi vittime, vittime delle logiche del potere e della sopraffazione, logiche spesso annidate anche negli spazi ecclesiastici.
Non posso poi qui non spendere una parola sull’immagine dei Cornelio che sono oggi le donne. Le donne. Ma direi anzitutto le donne senza potere. Quelle che sono sorelle degli ultimi, che restano in silenzio, in disparte. Le donne dell’Iran, le donne dell’Afghanistan, del Congo, delle periferie esistenziali del centro storico di Palermo o dei suoi quartieri periferici. Le donne portatrici di un messaggio diverso rispetto a quello delle donne che hanno raggiunto il potere (della parola e del successo) dentro le strutture maschiliste del potere che sono “strutture di peccato” (Giovanni Paolo II). Se il maschilismo si è infiltrato e ha dominato la storia in Occidente e nella Chiesa, il principio femminile è quello della privazione del potere, quello della fragilità senza sconti. Di una autentica fragilità in ricerca. Che ci sia dato di imparare a essere e a sentirci così: fragili in ricerca!
I Cornelio di oggi sono tutti i santi di strada, i santi semplici e comuni che la pandemia, la guerra, il terremoto (e mando qui idealmente un abbraccio alle sorelle e ai fratelli della Turchia, della Siria, di tutti i territori devastati dal sisma), i santi che questi eventi ci hanno fatto incontrare. Tutti coloro che sono santi senza saperlo, che vivono la vita con semplicità, a servizio degli altri, – proprio in questi giorni a Palermo abbiamo salutato fratel Biagio Conte fattosi povero con i poveri – e rappresentano la vera riserva di speranza del mondo. Questi santi dobbiamo venerare. Questi santi dobbiamo ascoltare se vogliamo avere il coraggio del Sinodo, il coraggio della consapevolezza di una nudità dell’umano che è il vero spazio dello spirituale. Bonhoeffer lo sapeva: essere cristiani vuol dire essere umani.
- Il syn del Sinodo
Ecco: abbiamo detto come essere in Sinodo, verso dove. Ma Sinodo vuol dire innanzitutto essere-con. Il Sinodo ha bisogno del syn. Ecco, del syn vorrei parlarvi leggendo il Testamento di Francesco di Assisi. È il cosiddetto Piccolo Testamento dettato a Siena, nell’aprile del 1226. Pochi mesi prima di morire, Francesco, per paura che le sue forze non avrebbero retto a lungo, detta per i suoi frati un testamento in cui racchiude la sintesi della sua ispirazione. In questo testo Francesco ci insegna che cosa vuol dire essere-con, essere uniti in cammino. Leggiamolo assieme:
«Scrivi che benedico tutti i miei frati che sono ora nell’Ordine e quelli che vi entreranno
fino alla fine del mondo. Siccome non posso parlare a motivo della debolezza e per la sofferenza della malattia, brevemente manifesto ai miei frati la mia volontà in queste tre esortazioni. Cioè: in segno di ricordo della mia benedizione e del mio testamento, sempre si amino tra loro, sempre amino ed osservino la nostra signora la santa povertà, e sempre siano fedeli e sottomessi ai prelati e a tutti i chierici della santa madre Chiesa» (Piccolo Testamento, Siena, aprile-maggio 1226, in Fonti francescane, 132-135).
Quattro intuizioni fondamentali per il cammino ‘insieme’, per il Syn-odòs.
Innanzitutto la benedizione: sentirsi benedetti. Francesco benedice tutti i frati, i suoi contemporanei e quelli che verranno, fino alla fine del mondo. È bella questa benedizione che travalica i secoli. Ciò significa che nel cammino comune dei cristiani, nel Sinodo, sono inclusi e benedetti tutti i cammini ecclesiali: le Chiese prima di noi, con noi, dopo di noi. Siamo popolo in cammino e ogni generazione fa il proprio pezzo di strada. Ma siamo tutti benedetti.
Secondo: l’amore fraterno. Essere benedetti è vivere dentro la consapevolezza di essere amati. Ma questa consapevolezza si traduce in una chiamata all’amore vicendevole. Senza la verità dell’amore, senza l’accoglienza reciproca dei cristiani, tutto si riduce o rischia di ridursi a una vuota ideologia, dove la ricerca dei poteri e il primato delle idee e delle posizioni intellettuali prevarica sul segno ultimo dell’amore, del rispetto, della tensione conciliare all’unanimità nell’affetto. Essere fratelli nella chiarezza della minorità. Il fratello maggiore è solo lui, il Cristo, e noi siamo tutti fratelli minori. La negazione della minorità è offesa al fratello maggiore. Essere-con vuol dire essere fratelli in vista di Cristo e in Cristo. Fratelli e sorelle per la creazione, per l’incarnazione e per la redenzione. Fratelli e sorelle in un cammino sinodale nel quale recuperiamo la nostra unica identità di fratello che non giudica e valuta l’essere fratello dell’altro. Io sono fratello, sorella: nessuno mi può togliere questa identità che è dentro di me. Senza sentirsi fratello, la comunione sinodale (il syn) sarà distorta e ridotta.
Terzo: la povertà. La Chiesa sinodale è una chiesa povera. “Come Cristo così la Chiesa”, ci ha ricordato Lumen gentium 8. Una Chiesa per i poveri, con i poveri, ma anzitutto una Chiesa povera. È il grande scandalo che ancora oggi Francesco pone davanti ai nostri occhi, la differenza che ci rapisce, ci chiama e ci giudica. Siamo fratelli senza potere, senza dominio del mondo, senza mezzi e senza forze per farci valere di fronte agli altri. La Chiesa o è così, o porta questa diversità, o non è niente. Solo se nel cammino sinodale diventiamo consapevoli della nostra povertà e ci apriamo al povero più povero possiamo sentirci uniti e vivere la pienezza del syn.
Quarto: l’ecclesialità. Ecco per Francesco il valore supremo: essere nella Chiesa e essere ubbidienti alla Chiesa. Per Francesco l’essere ubbidienti è il segno della condizione di figli. Come Cristo diede la vita per rimanere Figlio (Eb 5,8: «pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì») così è necessario che manteniamo questa consapevolezza indiscutibile: siamo ‘figli’ e non ‘padri’. Figli della Santa Madre Chiesa e soggetti all’unico fratello maggiore, al Cristo Signore, che è il Capo, il Servo, lo Sposo che dà la vita per la Sposa. Come predicava Bossuet, Cristo è unito alla Chiesa come l’unità del capo e delle membra del corpo, ed è unito nella relazionalità dello Sposo con la Sposa (cfr. J. B. Bossuet, Chiesa di Gesù Cristo, Venezia 1733). Ogni cammino sinodale è dentro la Chiesa e in vista della Chiesa. Lo smarrimento del syn è lo smarrimento stesso della Chiesa.
- Il segreto dell’Adsumus
Possiamo tornare così, per chiudere, alla pagina di Atti da cui siamo partiti, al moto interiore e comunitario che essa ci suggerisce. L’ascolto autentico dei Cornelio della storia odierna, l’assunzione del ‘non sapere di non sapere’, comporta un abbattimento di personalismi e di individualismi. Il Papa ha aperto questo cammino come per dire che nessuno sa, che nessuno – nemmeno lui – ha soluzioni in mano. L’esperienza sinodale è in definitiva quella di una espropriazione di sé, di un riconoscimento del proprio limite: si pensi all’Adsumus alla splendida preghiera inaugurale di ogni sessione conciliare, attribuita a Sant’Isidoro di Siviglia: «Siamo qui (dinanzi a te), Signore Spirito Santo (Ádsumus, Domine Sancte Spiritus), trattenuti dall’enormità del nostro peccato, ma riuniti in maniera speciale nel tuo nome (sed in nomine tuo specialiter aggregati): vieni, renditi tu presente a noi; degnati di penetrare nei nostri cuori; insegnaci cosa fare; mostra dove incamminarci; opera tu ciò che dobbiamo fare. Sii tu solo l’ispiratore e l’autore dei nostri giudizi». Il Sinodo comincia lì dove ci si riconosce peccatori, limitati, bisognosi di Dio e bisognosi dell’altro. Se saremo insieme sorelle e fratelli fragili e in ascolto degli ultimi della storia faremo sinodo. E in questa esperienza il Sinodo darà il suo frutto più autentico, in quanto ci farà discepoli del con: della con-divisione, della con-ricerca, del con-essere accanto a tutti. L’odòs del sinodo è diventare syn.
Di questa via e di questo senso abbiamo un’icona fortissima, una memoria mai doma, nell’evento dell’Eucaristia. L’Eucaristia è da questo punto di vista la fonte e il punto di arrivo della sinodalità: in quel ‘per tutti’ che non conosce perimetri viene alla luce l’universalità e appare la missione del Sinodo. Tutti, ossia tutti. Io so che questa parola ‘tutti’ non finisce mai, perché per finire dovrebbe raggiungere l’ultima donna, l’ultimo uomo. E non li raggiungerà mai. Anche perché l’ultimo è – come ci ricorda H. Jonas (cfr. Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2009) – la generazione futura, che verrà dopo e che ha diritto di parola e di spazio. E quel ‘tutti’ appartiene al pane e al vino. Come diceva in modo accorato Francesco d’Assisi, si comprende l’itinerario kenotico del Figlio nella misura in cui ci si rende conto che il nadir dell’Incarnazione sono il pane e il vino. Inanimati ma pieni della vita di tanti uomini e donne. Di Dio che si incarna nel Corpo, ma che continua ad incarnarsi nel creato, nel pane e nel vino. Il creato ogni giorno ri-creato dalla fatiche di tanti uomini e di tante donne. Pane e vino per tutti significa restituire il Cristo a tutti gli uomini: perché ogni uomo e ogni donna a Lui appartengono. Pane e vino che germinano da tanti e devono raggiungere tanti, anzi tutti. Perché il pane è per ogni affamato. Il vino per ogni assetato.
Passiamo insieme dalla fatica sinodale del creare il pane e il vino alla missione sinodale di dar da mangiare e da bere a ogni uomo, a ogni donna, a quelli che non lo dicono, a quelli che non lo sanno. Cominciando anche noi a capire, come Pietro, alla sua scuola, modello e icona di ogni altra. Buona serata a tutti e a tutte.