SETTIMANA SANTA / Messa Crismale, l’omelia dell’Arcivescovo Mons. Corrado Lorefice

“Questa è la consapevolezza che dobbiamo custodire nel nostro cuore come popolo sacerdotale e, in primis, noi ministri ordinati: il nostro oggi rende presente quell’oggi di Nazareth. È il giorno in cui torna a compiersi il mistero: il Cristo atteso è Gesù di Nazareth, annunciato dai profeti e venuto tra gli uomini”

Messa Crismale 2024

Omelia Arcivescovo di Palermo

Mons. Corrado Lorefice

 

 

Care Sorelle, cari Fratelli,

carissimi Fratelli nel Presbiterato di questa nostra amata Chiesa Palermitana,

il mio spirito esulta nel Signore perché ci viene concesso ancora una volta di esprimere visibilmente e di gustare nel cuore la nostra comunione in Lui, l’essere sua eredità, la sua Chiesa, plebs sancta, «popolo che deriva la sua unità dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (Cipriano, De Orat. Dom. 23: PL 4, 553; cfr LG 4). Celebrare la Messa crismale – la nona del mio servizio episcopale fra voi – prima di ogni cosa, infatti, significa sperimentare il nostro essere l’ekklêsía del Signore, la «convocazione» dei discepoli radunati dal Crocifisso risorto attorno alla Parola di Dio e all’Eucaristia, l’«assemblea» di coloro che sono uniti dalla fede comune e dall’amore fraterno.

Stamattina siamo riuniti nella chiesa Cattedrale a celebrare la nostra Eucaristia crismale, come un segno di contraddizione e di speranza. È la contraddizione della nostra vita, è il travaglio della nostra storia. È la contraddizione del presente in cui siamo immersi. Ma è anche la speranza. La speranza che giunge da lontano e continua a rimanere, ad agire in mezzo a noi, a partire da un evento preciso, di cui oggi facciamo memoria. Un evento da cui dipende il nostro essere, di tutti, discepoli del Signore rinati dal fonte battesimale, nonché il senso specifico del nostro essere preti, amati confratelli nel ministero ordinato.

Ecco, quest’evento ci viene oggi nuovamente raccontato. Riascoltiamolo. Perché è l’accadere di una parola: «Lo spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore» (Is 61,1-2a). Profetizzata secoli prima dal profeta Isaia, una mattina a Nazareth risuona una voce: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,21).

Tutta l’attesa del mondo, tutto l’anelito delle genti, tutti i sospiri della creazione convergono idealmente in quella mattina di Nazareth, in quella piccola sinagoga di Galilea! Finalmente! Quel che da secoli era stato annunciato ora è diventato presente. È oggi. È un presente che non ha fine. È il nostro presente. Cercarlo ieri, cercarlo domani, cercarlo altrove significa negarlo, negare quest’oggi: negare cioè che la Parola è diventata carne, che essa è all’opera in noi; negare che essa è viva nel nostro corpo, tempio dello Spirito Santo; negare che la parola si rende presente nei nostri corpi, che costituiscono il Corpo del Cristo, del Verbo fatto carne. A garantircelo è il libro dell’Apocalisse: è Cristo «che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre» (Ap 1,6). Malgrado le sue lentezze, i suoi tradimenti, le sue fragilità, le sue distanze dalla logica del Vangelo, questo popolo convocato qui oggi è un popolo di sacerdoti, è il Corpo vivente del Signore. Come affermava Benedetto XVI: «Per noi cristiani, “Corpo di Cristo” non è solo un’immagine, ma un vero concetto, perché Cristo ci fa il dono del suo Corpo reale, non solo di un’immagine. Risorto, Cristo ci unisce tutti nel Sacramento per farci un unico corpo» (Discorso, Basilica di San Giovanni in Laterano, 26 maggio 2009).

Sorelle e Fratelli carissimi, questa è la consapevolezza che dobbiamo custodire nel nostro cuore come popolo sacerdotale e, in primis, noi ministri ordinati: il nostro oggi rende presente quell’oggi di Nazareth. È il giorno in cui torna a compiersi il mistero: il Cristo atteso è Gesù di Nazareth, annunciato dai profeti e venuto tra gli uomini. Egli ha piantato la sua tenda tra noi (cfr Gv 1,14), ha sposato l’umanità e continua a nutrirci nella mensa che dà pane agli affamati, rendendoci fratelli, rigenerando i legami che compongono la trama delle nostre esistenze, facendoci l’esegesi del nostro essere Chiesa, segno del Regno, anticipo dell’umanità redenta. Per questo è venuto e ci ha chiamati: «Chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui» (Mc 3,13). Ci ha chiamati non per essere i privilegiati, non per essere i primi della classe, non per essere serviti, ma per servire. Per essere parte della schiera degli Abele della storia, di quelle vittime che in silenzio testimoniano, con la loro esistenza, la diversa giustizia di Dio. Ci ha scelti per far risuonare la sua voce e prolungare, rendendolo vibrante, il dono della sua presenza. Ci ha chiamati per sfamare gli affamati, per curare le ferite dei malati, per dare la vista ai ciechi, per restituire la libertà ai prigionieri. L’Eucarestia non sarà più celebrata sulla terra solo quando la terra sarà diventata cielo, quando sarà asciugata ogni lacrima, perdonato ogni peccato, sconfitta ogni morte, soprattutto degli inermi e degli scarti prodotti dalla durezza del cuore dei potenti e dei prevaricatori di questo mondo, che ancora armano le loro mani predatorie per devastare e uccidere.

Ma noi, discepoli di quel Gesù che ha parlato a Nazareth, siamo capaci di questa parola e di questa speranza? Le conteniamo o le freniamo? Possiamo sostenere il peso di questa missione? Perché il rovesciamento messianico, sempre ad-veniente, deve cominciare da noi, dalla guarigione del nostro peccato, dal risanamento della nostra violenza. Si tratta di riaprire la via che porta all’Albero della Vita, che è stato piantato in ogni cuore. Si tratta di tornare ad ascoltare noi stessi per dimorare alla sua ombra. Perché l’uomo si distrugge e distrugge quando perde sé stesso, quando non dialoga con il proprio mondo interiore, là dove risuona – nell’intimo più intimo – la voce di Dio che si è fatto carne, aprendoci le strade che ci portano verso i fratelli.

Ascoltiamo, Sorelle e Fratelli, questa voce! È la voce di Nazareth, che continua a risuonare dentro di noi. È per questo che siamo stati chiamati e inviati, unti con olio di letizia, rivestiti con veste di lode, insigniti di splendida corona: per trasformare l’oggi del peccato e della violenza in quell’oggi di salvezza proclamato a Nazareth.

A Nazareth. In quel luogo emblematico, nel quale oggi il progetto di Dio è continuamente distrutto, il Regno del suo Figlio è un inferno di fuoco e di fiamme, e la speranza sembra morire insieme alle donne, ai bambini, agli innocenti uccisi, al di là di ogni divisione, di ogni separazione, di ogni assurda contrapposizione. Lì dove quell’oggi sembra perire o sembra impossibile, lì deve risuonare ancora l’Evangelo, con la stessa parresìa e lo stesso candore con cui lo fece risuonare, in mezzo alla ferocia della guerra, il discepolo divenuto evangelo, Francesco d’Assisi. Perché Francesco capì che da quel giorno, da quando la voce di Gesù di Nazareth è risuonata in quella sinagoga, la carne del Dio fatto uomo è diventata con pienezza parola e identità. Da quel giorno ogni città è Nazareth. Ogni città è lo spazio del messia. Da quel giorno ogni luogo deve essere trasformato. Deve assumere la dignità e la misura dell’evento messianico. Ogni uomo e ogni donna capace di prendere su di sé la sofferenza degli altri è messia.

Ma perché questo accada, perché il messia si manifesti, ogni tempio costruito dall’uomo deve crollare. Sono i templi costruiti da noi, gli spazi esclusivi, i vessilli dell’identità, i sacrari del ‘noi’ contrapposti ai luoghi del ‘voi’, degli ‘altri’, sono questi templi che devono crollare in quanto origine di separazione e di violenza. Deve crollare la follia omicida e devastatrice della guerra, della sopraffazione e della fame. Devono fermarsi i fiumi di sangue che vediamo scorrere tra fratelli. Deve spezzarsi il velo del tempio per lasciare spazio alla Parola e al corpo del messia.

Gesù è l’Unto, il Cristo. E in lui, cari confratelli, noi siamo unti, inviati. Unti per diffondere e contagiare il profumo dell’olio santo, per spargerlo sui corpi dei morituri e farne dei rinati nello Spirito a una carne nuova. Questo vuol dire che dov’è presente Cristo si crea uno spartiacque, di cui noi siamo oggi annunciatori e interpreti: là dove c’era disperazione, si apra ora il cammino della speranza; dove c’era divisione, il cammino della riconciliazione; dove c’era tristezza, la via della gioia; dove c’era il tormento del vuoto, sopraggiunga la trepida inquietudine del trovare e del cercare sempre dopo aver trovato.

Certo, tutto questo non accade come per magia. È una strada, è una via. Mi piace perciò collocare questa nostra Eucaristia nel cammino sinodale. Ogni Sinodo è come un modo per rendere visibile, in un momento preciso della storia, questa natura itinerante della Chiesa. È la via duplice che abbiamo descritto: quella del nostro pentimento, della nostra guarigione dalle radici della violenza e della divisione, la via della nostra conversione, e al contempo la via del desiderio di propagare la voce di Nazareth, di far risuonare la ‘follia’ dell’Evangelo. L’Eucaristia è il senso e il segreto del Sinodo, cammino eucaristico: cammino di comunione che trasfigura i legami filiali, fraterni, le relazioni del prendersi cura. Che ci dona il riverbero prezioso e sapiente del sensus fidei dei fedeli con i quali, come ministri ordinati, condividiamo la grazia dell’Evangelo e della mensa eucaristica oltre che la polvere delle strade delle nostre città e i dolori e le attese delle case dei nostri quartieri. Paolo VI non mancò di ribadire: «Bisogna, ancor prima di parlare, ascoltare la voce, anzi il cuore dell’uomo; comprenderlo, e per quanto possibile rispettarlo e dove lo merita assecondarlo» (Ecclesiam suam, 90), così da saper riconoscere – come ama definirla Papa Francesco – «la santità della porta accanto».

Il nostro impegno deve essere quello di aprire strade là dove ci sono deserti e vicoli ciechi. È imparare, come fece il Santo Papa Giovanni XXIII, a parlare non solo la lingua della teologia della Gaudet Mater Ecclesia, ma anche la lingua del Discorso della luna. Perché la luna che riflette la luce del sole, che celebra la comunione del cielo e della terra, che illumina anche la notte e diffonde luce sugli uomini e sugli animali, nelle campagne e nelle città, nel mare e nelle montagne, che suscita tenerezza e soavità come la carezza data a un bambino, ci porta un annuncio: siamo chiamati a prendere parte alla liturgia cosmica di cui è anticipo e pregustazione l’Eucaristia che fa la Chiesa e la edifica come segno di unità, di speranza e di certezza dei cieli nuovi e della terra nuova.

In questa Eucaristia l’oggi di ogni tempo – la storia, il presente e il futuro – è incluso e trasfigurato. Nell’oggi dell’Eucaristia, cari presbiteri, riviviamo e riattualizziamo la bellezza di essere nati, battezzati, amati, perdonati, nutriti, benedetti e consacrati per contribuire alla costruzione della Chiesa. Mi rivolgo particolarmente a voi, Fratelli carissimi chiamati a presiedere l’Eucaristia, chiamati ad ascoltare, vivere e annunciare la Parola, chiamati ad essere guariti e a donare la guarigione del Risorto, chiamati ad essere nutriti e a dar da mangiare, chiamati a ricevere e a donare il perdono dei peccati, uniti tra noi, guidati dalla Vergine Santa, viviamo la bellezza di questo momento che gustiamo con l’intero popolo di Dio. Essere con Gesù a Nazareth, essere da lui attratti e chiamati, insieme da lui guidati, per fare di Palermo, delle nostre Città e dell’umanità la nuova Nazareth dove risuona la Parola di salvezza: “Oggi questa parola si adempie”. Lo Spirito Santo ci unge per annunziare a tutti che siamo sempre e comunque figli amati, perdonati e consolati da Dio Padre nel suo Figlio, l’Amato.