BENEDETTO XVI / “Un vero testimone del Messia della storia. Raccogliamo adesso, con gratitudine, la sua eredità”

L'Arcivescovo Corrado Lorefice ha presieduto nella Chiesa Cattedrale la messa di suffragio per il Papa Emerito / L'OMELIA

Nell’apprendere la notizia della morte del Papa Emerito Benedetto XVI, lo scorso 31 dicembre, l’Arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice ha invitato l’intera comunità diocesana a elevare al Signore una fervida preghiera in suffragio della sua anima: “Nel ricordo delle parole offerte in occasione della Visita Apostolica a Palermo il 3 ottobre del 2010 “mettetevi a piena disposizione di Dio, lasciatevi plasmare dalla sua Parola e dal suo Spirito, e sarete ancora, e sempre più, sale e luce di questa vostra amata terra”, rendiamo grazie al Signore per il dono del suo ministero petrino, per la sua testimonianza di servizio alla Chiesa, per il suo insegnamento e per la sua esemplare umiltà”.

Lunedì 2 gennaio l’Arcivescovo di Palermo ha presieduto nella Chiesa Cattedrale la Messa di suffragio per Benedetto XVI.

Celebrazione Eucaristica in suffragio del Papa Emerito Benedetto XVI

Chiesa Cattedrale, 2 gennaio 2023

Omelia

Il Quarto Vangelo, ci offre una presentazione “altra” del Battista. Il brano liturgico odierno (Gv 1,19-28) ci offre una pericope riguardante la confessione del Battista circa la propria identità.

Giovanni sta alla cerniera tra Antico e Nuovo Testamento, è l’ultimo dei profeti dell’antica alleanza e il primo a proclamare il Vangelo (cfr Lc 3,18): è lui il sigillo della continuità della fede, è lui il testimone della Legge e dei Profeti, e nel contempo l’annunciatore e il testimone di Gesù Cristo.

Giovanni entra in scena nel prologo del Quarto Vangelo in modo brusco e inatteso: “Venne un uomo mandato da Dio. Il suo nome era Giovanni”.

Giovanni è un uomo. Si tace il suo essere venuto al mondo da una famiglia sacerdotale, si tace la sua provenienza. Egli è un uomo presentato in modo spoglio, del quale importa solo dire che è “inviato da Dio” e, subito dopo, “testimone “. Ecco la sua vera qualifica: un inviato, un profeta e un testimone, dunque servo solo di Dio. A lui spetta di testimoniare riguardo alla luce venuta nel mondo, questa è la sua missione: chiamare tutti a credere alla luce e a uscire dal dominio delle tenebre. Le prime parole che Benedetto XVI pronunciò il 19 aprile 2005 dal loggione della Basilica di San Pietro subito dopo la sua elezione furono: «Dopo il grande papa Giovanni Paolo II, i signori cardinali hanno eletto me, un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore». Benedetto XVI, il Papa Emerito: un servitore di Dio.

Nel Quarto Vangelo, inoltre, Giovanni si definisce ed è definito soprattutto in modo negativo, ossia in riferimento a ciò che non è: è inviato da Dio, ma non è la luce, bensì soltanto il testimone della luce. L’evangelista vuole sottolineare la differenza radicale tra il profeta, un uomo, e il Figlio di Dio venuto nel mondo.

E cosa dice di sé Giovanni, quando le autorità giudaiche gli inviano da Gerusalemme sacerdoti e leviti per interrogarlo? Si tratta di un vero e proprio interrogatorio, di un vero processo. Non appena lo vedono, gli inviati gli chiedono in modo diretto e autoritario: “Tu, chi sei?”. La sua risposta svela i loro desideri e le loro intenti. Essi temono che Giovanni possa vantare pretese messianiche, ma egli tempestivamente confessa: “Io non sono il Messia”. Egli risponde con libertà e parrhesía, senza indugiare. Se nel prologo l’evangelista aveva scritto: “Non era lui la luce”, qui Giovanni afferma di sé la medesima verità: “Io non sono il Messia”, colui che la tradizione giudaica definiva anche “luce” (Gv 8,12).

Giovanni non pronuncia mai una frase assertiva che contenga l’espressione “Egó eimi”, “Io sono”, perché questa compete solo a Gesù come autorivelazione (cfr Gv 4,26), Giovanni invece dice: “Ouk eimì”, “Io non sono”. Egli ha il compito di indicare non se stesso ma solo Gesù. Per questo dirà: “È lui del quale ho detto…” (Gv 1,30); “ho contemplato lo Spirito discendere … e rimanere su di lui” (Gv 1,32); “è lui che immerge nello Spirito santo” (Gv 1,33), “è lui il Figlio di Dio” (Gv 1,34).

Giovanni non vuole neppure essere identificato con Elia (Ml 3,23: “Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore), né con il Profeta, uguale a Mosè, che Dio aveva promesso (cfr Dt 18,15).

In tal modo mostra chiaramente di essere un uomo decentrato, perché sa che al centro c’è il Cristo. Evita persino di dire: “Sono”, perché non vuole che l’attenzione sia rivolta a lui. Dice semplicemente: “Io, voce di uno che grida nel deserto” (Gv 1,23; cfr Is 40,3). In questo atteggiamento c’è la vera grandezza di Giovanni, che indica, rivela, invita, ma mai chiede di guardare alla sua persona. Come dirà più avanti, in riferimento a Gesù, lo Sposo: “Lui deve crescere; io, invece, diminuire” (Gv 3,30).

L’interrogatorio prosegue ad opera di alcuni farisei, i quali intervengono per chiedergli: “Perché dunque battezzi, se non sei il Cristo, né Elia, né il Profeta?”. Il Battista risponde, sempre con franchezza: “Io battezzo con acqua, ma in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dietro di me. A lui non sono degno di slegare il laccio del sandalo”. Nessuno lo conosce ma Giovanni lo annuncia: la sua rivelazione è prossima, sta per avvenire, e il Battista si definisce servo di questo veniente.

Nel Quarto Vangelo va sottolineata la particolarità dell’annuncio del precursore: secondo le sue parole, il veniente è già presente, è sconosciuto ma sta alla sua sequela (opíso mou) ed è più grande di Giovanni stesso, che per ora è suo maestro.

Egli è dunque il testimone: ha una chiara e precisa conoscenza della propria missione, per questo non dà testimonianza su di sé, negandosi ogni funzione che possa entrare in concorrenza con Gesù, con la sua centralità e il suo primato. Per questo suscita domande con la sua sola presenza, con la sua vita, e chiede a tutti di fare discernimento sul Cristo che è già presente e va riconosciuto come ‘il veniente’ che era alla sua sequela ma gli è passato davanti, perché era Figlio dall’eternità (cfr Gv 1,30).

Il Papa Emerito, Benedetto XVI, da vero testimone del Messia della storia, l’11 febbraio 2013, ebbe il coraggio e l’umiltà di farsi indietro, di mettersi da parte, per poi passare il testimone a Papa Francesco. Un atto di totale fiducia nel Signore Gesù che feconda la storia con la sua Pasqua, che continua a condurre la sua Chiesa anche nel travaglio e nella complessità di questo nostro tempo; che continua a suscitare suoi servi e testimoni fedeli.

Benedetto XVI ha dedicato tutta la sua vita ‒ nella ricerca teologica, nel ministero episcopale, nel servizio alla Santa Sede, nel ministero petrino nella preghiera, nel ritiro orante ‒, alla ‘conoscenza’ del mistero di Cristo e della sua Chiesa. A sostenere la fede dei cristiani. A dare ragione a tutti – con tratto signorile e grande capacità di dialogo – della speranza cristiana (cfr 1Pt 3,15). Con passione, portando nel suo travaglio intellettuale il dramma dell’allontanamento dell’Europa dal cristianesimo, della pretesa emancipazione dell’uomo postmoderno da Dio.

Raccogliamo ora con gratitudine la sua eredità di grande testimone del Cristo crocifisso e risorto e facciamo nostre le sintetiche parole della sua prima Lettera enciclica Deus caritas est: “Abbiamo creduto all’amore di Dio ‒ così il cristiano può esprimere la scelta fondamentale della sua vita. All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (n. 1).