Omelia dell’Arcivescovo di Palermo Mons. Corrado Lorefice
nella Domenica delle Palme, 24 marzo 2024
Con il segno della benedizione delle palme e la processione festosa abbiamo fatto memoria dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme osannato e accolto dalla folla con le fronde.
Questi segni della gioiosa e tutta primaverile liturgia della Domenica delle Palme vogliono esprimere i sentimenti più veri che animano oggi il nostro cuore e, soprattutto, la volontà di proseguire il cammino dietro a Gesù – giunto alla tappa decisiva – e di portarlo a compimento, fino alla fine. Stretti a Gesù, per tornare a scegliere, ancora oggi, la via della croce e, dunque, la misura di un amore più grande per Dio e per ogni uomo e donna, come e dietro a Lui, fino all’ultimo giorno della nostra vita terrena.
Non possiamo fermarci alla soglia della città o limitarci ad oltrepassarne la porta, occorre inoltraci al cuore della nostra vita, nelle vie e nelle stanze più interne di essa, né possiamo rimanere arenati nelle secche di una religiosità che non ci fa osare una fede capace di prendere il largo per fendere le onde del mare della vita. Occorre pro-seguire con Gesù – con i suoi sentimenti, la sua mitezza, la sua capacità di svuotarsi, di abbassarsi –, fino al luogo detto Gòlgota, il luogo del Cranio (cfr Mt 27,33). Dietro a Lui fino a porre la nostra orma sull’ultima orma di Gesù, quella che ha lasciato impressa nel sudario del sepolcro nuovo scavato nel giardino presso il luogo dove era stato crocifisso (cfr Gv 19,41). I passi di Gesù conducono e ripartono dal sepolcro, ultimo sorso del calice che come Figlio dell’Uomo ha bevuto, morendo nella piena fiducia di assaporare il vino nuovo del Regno.
La Domenica delle Palme, alla fine del cammino quaresimale, ci chiede definitivamente di essere con Lui, là dove Lui è, e fino a dove Lui andrà. Non ci si può tirare indietro dopo i quaranta giorni del cammino quaresimale; giorni ardui ma fecondi per recuperare la postura discepolare: «Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli. Il Signore Dio mi ha perforato l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro» (Is 50,5).
Entriamo dunque con la Domenica delle Palme nella Settimana santa. Sediamoci come suoi discepoli ai piedi di Colui che sale sulla cattedra della croce del Golgota per donarci la sua stessa vita e riversare nei nostri cuori l’amore di Dio per mezzo dello Spirito (cfr Rm 5,5).
L’entrata in Gerusalemme segna l’ingresso nell’ora storica di Cristo, l’ora verso cui tende tutta la sua vita come ci viene suggerito dal IV Vangelo sin dal cap. 2 nelle parole che Gesù rivolge a Cana di Galilea alla Madre: «O donna, non è ancora giunta la mia ora» (Gv 2,4). L’ora dove converge e da dove riparte l’intera storia del mondo. «L’ora in cui sarà glorificato il Figlio dell’uomo» (Gv 12, 23) attirando tutti a sé, anche i Greci, gli stranieri che, avendo saputo della sua presenza in città, chiedevano di vederlo: «Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32).
Gesù, entrando a Gerusalemme, non parla, non dice nulla, ma pone un loquace gesto simbolico. Chiede la collaborazione perfino ad un puledro che gli viene affidato sulla sua parola: «Rispondete: “Il Signore ne ha bisogno, ma lo rimanderà qui subito”» (Mc 11,3). Sale sopra un animale mite, cavalcatura dei sovrani di Israele e di Giuda utilizzato durante il tempo di pace a differenza dei cavalli e dei cocchi dei tempi di guerra. Gesù – Messia singolare – si narra attraverso un gesto semplicissimo, che lo mostra mansueto e umile, come lo descrive l’inno cristologico della Lettera ai Filippesi di Paolo Apostolo proclamato nella seconda lettura: «Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome» (Fil 2,6-9).
Saliamo anche noi con Gesù a Gerusalemme, fino al Golgota per essere noi anche diretti testimoni dei sentimenti e dei gesti che Gesù pone in quella sua ultima santissima settimana. Segni inediti, che sconvolgono ogni aspettativa religiosa, oltre che umana.
La Settimana Santa è una immersione nei sentimenti e nei gesti di Gesù che ci rivelano il vero volto di Dio: rinunzia al potere, pazienza, mitezza di fronte ai persecutori, perdono, sguardo puro, affidamento al Padre. Facciamoli nostri, ci performino il cuore e la mente, risveglino la nostra fede e ridisegnino la nostra grammatica umana. Sono sentimenti che immediatamente neppure gli apostoli capiranno e che addirittura, nella tristezza della delusione, criticheranno. Tutti lo abbandoneranno. Eccetto le donne che continuano a seguirlo con lo sguardo pieno d’amore, fino al luogo della sepoltura, da dove verrà loro consegnato l’annunzio della Risurrezione. Per divenire apostole degli Apostoli.
Lo sguardo di Gesù resta fisso sul Padre, che lo riconosce come suo Figlio attraverso le parole del centurione: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39); il suo corpo rimane prossimo agli uomini fino all’eccesso di collocarsi tra due malfattori che «crocifissi con lui lo insultavano» (Mc 15,32). Scarto degli scartati. L’Umiliato.
In questa Settimana Santa contempliamo il Messia di pace. Ci riveli il Volto del Padre. Il nostro cuore si infiammi di fede e di amore dinnanzi a questo Dio. Performate dagli stessi sentimenti di Cristo, le nostre comunità cristiane possano sempre più essere segno della compassione salvifica Dio in atto nel travaglio del mondo.
Nella Casa comune e nelle nostre città segnate dalle nuove povertà, dalla violenza di strada, dall’inumanità, dalla paura per il rischio di una guerra totale, nutrite dall’amore di Cristo che contempleremo in questi giorni, le fraternità discepolari siano tende di comunione, di pace, di accoglienza, di perdono, di speranza e di vita nuova.