“Lo Spirito del Signore oggi continua a edificarci come fraternità”: l’omelia dell’Arcivescovo nel giorno della Pentecoste

"Oggi anche noi cristiani conosciamo l’affanno di una storia che accoglie pagine di distruzione, percepiamo addirittura una sorta di cantiere che demolisce invece di costruire. I discepoli e le discepole di Gesù portano in loro questo travaglio, accolgono il dono della lingua nuova dell'amore e lo mettono a disposizione del travaglio del mondo"

PENTECOSTE, 5 giugno 2022

Omelia dell’Arcivescovo di Palermo Mons. Corrado Lorefice

La Pentecoste che noi oggi celebriamo facendo memoria di quella irruzione dello Spirito di cui ci parla il Libro degli Atti rinnova e libera in noi il dono del Soffio vitale che ci ha generati a nuova vita nella nostra prima Pasqua, nel giorno della nostra rinascita battesimale. Dono che ci segna anche come corpi. La Pentecoste, pienezza della Pasqua di Cristo, del Messia glorificato da Dio, infatti, fa sgorgare il fiume di acqua viva che ci rigenera come discepoli di Gesù e riversa in noi il ‘respiro’ di Cristo. E così viviamo mossi dall’energia della risurrezione: «E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi» (Rm 8,11). Lo Spirito che irrompe come rombo di vento gagliardo e come lingue di fuoco, è il soffio che porta la parola di Cristo, la insegna e la ricorda. Parola che assume tutte le lingue perché tutti possano riconoscere le grandi opere di Dio (cfr At 2,1-11). Parola che arriva nella sua bellezza attrattiva, parola che prende corpo, ché ‘per-forma’ il pensiero e guida il vissuto ordinario, che imprime nella storia una energia di novità, una forza trasfigurante, un corso di pienezza e di compimento.

Nel testo della Lettera ai Romani, «l’evento messianico per il quale noi entriamo nel rapporto dei figli con il Padre, viene identificato con la partecipazione alla sofferenza di Cristo (Rm 8,17) e ‒ con uno sfondamento sconvolgente del ristretto orizzonte individuale ‒ alla sofferenza della creazione tutta che, coinvolta nello stesso destino dell’uomo, attende di essere “lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8,21)» (G. Ruggieri).

Oggi anche noi cristiani conosciamo l’affanno di una storia  che conosce ancora pagine di distruzione, percepiamo addirittura una sorta di cantiere  che demolisce invece di costruire. Assistiamo alla concentrazione del potere, alla hybris delirante dell’onnipotenza. Oggi percepiamo l’arsura della Terra, la “Casa comune” (Papa Francesco), sempre più devastata da questa nostra generazione che pensa di abitarla come se fosse l’ultima e dove si innalzano sempre più  muri di inimicizia e si combattono guerre sempre più violente e nefaste. Oggi conosciamo la dispersione e la confusione che sopravanza nelle nostre città come nella Babele biblica (cfr Gn 11,1-9). Eppure noi cristiani non ne rimaniamo scandalizzati, perché nel nostro stesso corpo percepiamo le primizie dello Spirito. Noi per primi veniamo trasformati, riscattati, liberati, riconciliati, trasfigurati.

Nella casa comune e nella città degli uomini il gemito e il grido non è un incidente di percorso, ma è il grido della creazione che risuona massimamente negli acuti delle imprecazioni dei poveri e degli oppressi e negli sconvolgimenti climatici provocati dalla nostra incuria predatoria. Sono il grido e i gemiti disperati della creazione di cui parla Paolo della Lettera ai Romani: «Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto;  essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo» (Rm 8,22-23).

Sì, infatti ‒ soprattutto se consideriamo l’interpretazione di Teodoro di Mopsuestia ‒  «la creazione nella sua situazione disperata (apokaradokia: «karadokein si dice per la speranza, apokaradokein si dice per la disperazione») è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio» (Rm 8,19).

E se è vero, come è  vero, che oggi noi come la prima comunità,  prendiamo parte attraverso il memoriale liturgico all’irruzione dello Spirito, il dono del Crocifisso Risorto asceso al Cielo, e portiamo in noi «le primizie dello Spirito» (Rm 8,23), non possiamo dimenticare di essere anche noi parte della creazione che «geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi» (Rm 8,22). La Pentecoste è l’irruzione della novità di Dio nella creazione tutta, nella casa comune. È il kairos di Dio che feconda il tempo umano, il kronos, di futuro redentivo. Riascoltiamo di nuovo l’Apostolo: «Venuto quel fragore, la folla si radunò e rimase sbigottita perché ciascuno li sentiva parlare la propria lingua» (At 2,6).

Il gemito e la lotta sono il segno di un mondo che finisce e annunziano un mondo nuovo che comincia. È già in noi il parto del mondo nuovo. Per questo siamo solidali, abbiamo viscere di compassione, di misericordia di cura e di perdono per questo nostro mondo. I discepoli e le discepole di Gesù portano in loro questo travaglio e si rendono disponibili al servizio di questo parto. Accolgono il dono della lingua nuova dell’amore e lo mettono a disposizione del travaglio del mondo. In questo sta la nostra differenza rispetto al mondo. Il testo di At 2,1 precisa che «si trovavano tutti insieme nello stesso luogo». Lo Spirito quando sopraggiunge compagina e ricolma le relazioni umane della comunione divina,  della comunione trinitaria; rende capaci di parlare la lingua dell’amore, seppur nella diversità di lingue, di provenienza, di cultura e di sensibilità. Lo Spirito ci unisce a Cristo, ci fa rimanere in Lui, il Primogenito di coloro che risuscitano dai morti; ci rigenera interiormente, così nelle nostre parole e attraverso i nostri corpi la vita di Cristo si protrae in noi così da arrivare ovunque attraverso di noi: «Lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14,26).

Lo Spirito del Signore oggi  continua ad edificarci come fraternità e ci spinge fuori, ci porta fuori, chiede di profetizzare, chiede di essere aiutato a dare vita a ‘corpi vivi’, animati dal soffio vitale di Dio, vuole che gli uomini non siano preda della morte, che non siano un ammasso di ossa inaridite pietrificate dall’egoismo e dall’autoreferenzialità,  ma che abbiano vita, che si rialzino in piedi (cfr Ez 37,1-4), ferventi e creativi nel bene (cfr 1Pt 3,13).

Lo Spirito oggi ci ricorda e, soprattutto, attiva in noi quanto Gesù ci ha testimoniato, con la sua vita, con il suo Evangelo: una passione profonda per l’umano. Lui ha amato la nostra terra, la nostra storia. Perché, come affermava D. Bonhoeffer, essere cristiani significa essere uomini (cfr Resistenza e resa, 441-446). Ognuno di noi è un chiamato ad accompagnare questa nostra umanità verso i Cieli nuovi e la Terra nuova. Questo giorno di Pentecoste annunzia la signoria salvifica di Gesù sul mondo.

Lo Spirito oggi effuso anima e sostiene la speranza cristiana: «Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il “Dio-con-loro”. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Ap 21,3-4).