“Trent’anni dopo il suo martirio don Pino continua ad accompagnare la sua e la nostra Chiesa”

L'Omelia del Vescovo Corrado nel XXIX anniversario del martirio del Beato Giuseppe Puglisi. In Cattedrale esposta la reliquia della copia del Vangelo e del Libro degli Atti che 29 anni fa erano stati posti nella bara del parroco di Brancaccio. Aperto il nuovo Anno pastorale della Chiesa palermitana

XXIX Anniversario dell’uccisione del Beato Giuseppe Puglisi, sacerdote martire

Memoria della Beata Vergine Maria Addolorata

Cattedrale – 15 settembre 2022

Omelia dell’Arcivescovo di Palermo, Mons. Corrado Lorefice

Stavano in piedi accanto alla croce» (Gv 19,25).

 

Sorelle e Fratelli, Figlie e Figli carissimi,

il verbo greco impiegato “stare” (istemi) nel Vangelo odierno, Festa dell’Addolorata, ma anche XXIX Anniversario dell’uccisione di don Pino Puglisi, del Beato Martire palermitano, ha una molteplicità di sfumature di significato: evoca la capacità di resistenza. In 1Cor 10,12-13 l’immagine dello stare in piedi contrapposto al cadere evoca proprio la resistenza nella prova. Nel contesto della passione di Cristo, lo stare della Madre, delle donne e del discepolo amato evoca dunque fedeltà nella prova, una fedeltà che si contrappone alla fuga di tutti gli altri, che hanno abbandonato il Signore, l’hanno tradito o rinnegato.

Stare è anche espressione di una fedeltà che dice comunione non solo con Gesù, ma anche tra loro: “stavano”. Non si può stare in solitudine, si può stare solo nella comunione, c’è una comunione nello stare. La comunione ecclesiale. È anche la relazione di fraternità che, in questo caso, permette di “stare”. Le donne stanno “accanto alla croce”, espressione particolare, dal momento che la preposizione “accanto” (parà) unità al sostantivo “croce” (staurò) è sempre usata altrove per le persone, non per le cose. Si sta accanto ad una persona. Maria Maddalena la troveremo stare anche “accanto” al sepolcro drammaticamente spalancato e vuoto – senza l’Amato – al mattino di Pasqua (Gv 20,11).

Lo “stare” non si improvvisa, ma è frutto di una consuetudine di vita, di una storia, di un vissuto quotidiano. La prima che sta, è una donna che è rimasta sostanzialmente nascosta, è la donna normale, che ha vissuto l’ordinarietà dell’essere madre, senza fatti eclatanti. Maria è colei che ha donato la vita al Figlio, colei che l’ha accompagnato nel quotidiano, che l’ha educato. Ma credo che ci sia una particolare attitudine della madre, che emerge dalle pagine del Vangelo e che presso la croce ha una sorta di sintesi: Maria è colei che è rimasta sempre davanti al mistero del figlio, accettando di non capire, accogliendo un “oltre” che continuamente la superava. Che non lo abbandona e lo segue fino all’ora, fino all’oltre dell’Amore smisurato e folle di Dio manifestatosi definitivamente nel Crocifisso del Golgota.

Ma c’è un’altra figura che stava accanto alla croce di Gesù: il discepolo che Gesù amava. Colui che nel quotidiano della sua relazione con il maestro aveva fatto l’esperienza di essere amato, di un amore particolare, non generico. Attraverso quest’amore ricevuto il discepolo ha raggiunto un’intimità profonda con il maestro, evocata dall’immagine di Gv 13,25 della testa appoggiata sul cuore del maestro. Si può “stare presso” perché si è stati amati, e lo si è, fino a tanto: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Puoi trovare la forza di stare, di rimanere in piedi di fronte al dramma perché nel quotidiano si è sperimentato l’amore, perché si è fatto esperienza e si è coltivata una relazione profonda, di intimità: «Li amò sino alla fine (eis télos)» (Gv 13,1).

Questo amore conosciuto personalmente si rinnova nel corpo di coloro che lo hanno imitato amando fino alla fine, cioè fino al compimento dell’amore. Nella Sequenza Stabat Mater la Chiesa canta: «Fac ut árdeat cor meum in amándo Christum Deum» (Fa’ che arda il mio cuore nell’amare il Cristo-Dio). Come il nostro don Pino che trent’anni dopo il suo martirio continua ad accompagnare la sua e nostra Chiesa. Egli è ciò che la Chiesa deve essere, la conferma nel dono dello Spirito.

Come vi scrivo nella Lettera Fino al compimento dell’amore, che oggi consegno a voi e all’intera Arcidiocesi di Palermo in occasione dell’apertura del 30° Anniversario dell’uccisione di Padre Pino Puglisi (1993-2023), vivere l’Evangelo è seguire l’Agnello ovunque vada: fino alla fine, appunto. Perché la Chiesa nasce dalla Croce, atto estremo di un amore folle, quello di Dio per gli uomini e per il mondo: per gli uomini e le donne che sono nel mondo. Un amore che continuamente rinasce perché rifulge sul volto del Crocifisso e traspare nella vita di quanti sono uniti alla sua Croce: di quanti la portano già per condizione, a causa del peso della vita umana, e di quanti la ‘con-portano’ per chiamata.

I martiri sono coloro che rinnovano con la propria vita l’annuncio del Regno, il segno grande dell’amore che feconda il mondo, per donare nuovamente a Dio gli spazi dell’esistenza attraverso sguardi trasfigurati, rivolti all’«eminente dignità dei poveri» (J. B. Bossuet), dei sofferenti e degli oppressi.

Sono loro che continuano a indicare tra i fratelli e le sorelle, nella fatica e nel travaglio di ogni giorno, la via dell’amore, dell’ascolto dei segni dei tempi e della corresponsabilità ecclesiale: narrano la verità del seme in terra, il sangue sparso che dona vita. Coloro che ricordano alle nostre comunità di non perdere di vista la parte migliore (cfr Lc 10,42), per essere rigenerate continuamente dall’ascolto del Signore, fondamento e forza dello stile sinodale.

Nel corpo di chi è vittima per amore – come è accaduto a Gesù – il male raggiunge una momentanea, fragile e infine inconsistente vittoria: proprio quando il male sembra trionfare, viene invece sconfitto dal germogliare della vita nuova che inutilmente ha tentato di sopraffare. Gesù è il risorto!

La forza del nostro amato P. Pino germinava dalla Parola dentro di lui: la Parola come relazione con Dio che diventa relazione con l’uomo. A lungo Don Pino aveva cercato le strade per aiutare l’uomo. E alla fine era ritornato all’inizio, al principio: alla Parola di Dio e alla vita consegnata ai fratelli: «Vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunziatore del Vangelo, adempi il tuo ministero» (2Tm 4,5). Oggi è qui in mezzo a noi l’insigne reliquia della copia del Vangelo e Libro degli Atti di don Pino che 29 anni fa era stato posto nella sua bara. Guarda caso, il Vangelo e la sua corsa attraverso la testimonianza della Chiesa post-pasquale. Uno di noi, don Pino, impegnato lungo le strade della vita a sopportare le sofferenze sue e dei fratelli, impegnato sulle le strade della città ad adempiere con umiltà il suo ministero: ricordare agli uomini che sono perdonati dal Padre, amati nel Figlio, consolati dallo Spirito. Ricordare agli uomini e che il senso ultimo dell’esistenza è anche per noi in questi verbi: amare, perdonare e consolare.

Quest’anno che comincia oggi non sarà solo di commemorazione ma – innanzitutto – di conversione: per questo voglio invitare voi tutti, Sorelle e Fratelli, ad incamminarci su un itinerario che ripercorra le sue vie. Proseguiamo su questo solco fatto di passione per la Parola e passione per gli uomini, rileggiamo con lui la teologia dell’Incarnazione: Cristo si fa uomo, affinché l’uomo diventi umano. Dentro questo mistero è il ministero del nostro P. Pino: lui che accoglie il martirio perché la città diventi più umana, il quartiere diventi più umano, ogni strada e il nostro modo di viverci, il nostro stile del convivere, diventino più umani. Le nostre comunità più fraterne, capaci di contagiare vita fraterna.

Non posso non ricordare a me stesso e a tutti noi che in questo stesso giorno, quattro anni fa, Papa Francesco è venuto a inaugurare idealmente il nostro metterci in cammino sui passi di P. Pino. Lo ha fatto venendo a visitare le case di Brancaccio e indicandoci subito la sedia rotta nella saletta del nostro Beato: continua a dirci, P. Pino, che il luogo in cui dobbiamo collocarci non è una poltrona, non è una stanza chiusa, ma è fuori, tra le strade, là dove gli uomini costruiscono la storia, affinché sia una storia pienamente umana, secondo il desiderio di Dio.

Vorrei terminare con le parole di colui che S. Giovanni XXIII chiamava «la tromba dello Spirito Santo nella Bassa padana».  Don Primo Mazzolari, un prete meraviglioso, come don Pino. Due preti che avevano la stessa consonanza di visione ecclesiale e di esercizio del loro ministero. Pensando a una “Chiesa in uscita”-  come ama dire oggi Papa Francesco -, avendo un pensiero particolare per i suoi fratelli sacerdoti, diceva: «Per camminare bisogna uscire di casa e di Chiesa, se il popolo di Dio non ci viene più; e occuparsi e preoccuparsi anche di quei bisogni che, pur non essendo spirituali, sono bisogni umani e, come possono perdere l’uomo, lo possono anche salvare. Il cristiano si è staccato dall’uomo, e il nostro parlare non può essere capito se prima non lo introduciamo per questa via, che pare la più lontana ed è la più sicura. […] Per fare molto, bisogna amare molto» (P. Mazzolari, Coscienza sociale del clero, ICAS, Milano, 1947, 32). E Don Pino: “Se ognuno fa qualcosa possiamo fare molto”. Chi sta presso la croce, è un rivoluzionario dell’amore, pone tra gli uomini i segni messianici. A Palermo, soprattutto, semina speranza perché annunzia che la mafia è stata ed è la più grande illusione di felicità. Genera novità!