Strage di via D’Amelio, il ricordo, la preghiera e la costruzione di speranza nelle parole dell’Arcivescovo di Palermo

Fare memoria di Paolo Borsellino e degli altri martiri della mafia contro "l'ostinazione del male" (Omelia, Chiesa cattedrale, 19 luglio 2021)

Carissimi, carissime,

Ci siamo riuniti per fare memoria, la memoria di una città. Non si tratta di un mero momento celebrativo-commemorativo. Fare memoria di Paolo Borsellino, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina è mettersi in ascolto del dolore dei loro familiari, del dolore delle vittime di mafia e di questa nostra amata città così martoriata e ancora bisognosa di riscatto. Fare memoria significa familiarizzare con i nomi della memoria ferita e prendere ferialmente e fattivamente parte alla domanda di affrancamento dal male, dall’abitudine alla rassegnazione, alla sudditanza sociale e psicologica. Significa ripensare il nostro modi di vivere la città, di stare nella città.  Oggi. È proprio la città che permette la communitas, la socialità, la solidarietà; è la città che fa uscire dalla logica della tribù e del clan e consente di vivere nell’orizzonte dell’altro, della ricchezza del ‘noi’ plurale e diverso.

Eppure, proprio nella città il male si fa più evidente; la tragedia dei rapporti e delle relazioni segnate dalla violenza viene vissuta dal vivo, in diretta. La città umana, la realtà più decisiva per il progresso e il cammino culturale dell’umanità, è anche un luogo che contraddice la qualità della vita e delle relazioni, quando non è addirittura segnata dalla barbarie e dalla disumanità.

Essa conosce gli effetti dell’indurimento del cuore di uomini che si ostinano nel male coalizzandosi in sodalizi che impongono un dominio e limitano la libertà di altri uomini e di altre donne. Città soggette al delirio di onnipotenza dei cuori ostinati e spietati dei faraoni di ogni popolo di ogni tempo; delirio che produce strutture perverse, schiavitù, sfruttamento, violenza, oppressione e morte. «Il Signore rese ostinato il cuore del faraone».

La città umana conosce anche un’ostinazione nel male. Una concentrazione del potere totalitario che vuole dominare. La pervicacia della sclerocardia. Una terribile patologia dell’animo umano di ogni tempo. Per questo motivo la libertà degli oppressi risulta sempre insopportabile e la volontà di sopraffazione dei dominatori si impone con antiche e nuove forme di connivenze e ricorre a strumenti adatti e aggiornati.

Ma la città degli uomini conosce anche gli inviati da Dio, i profeti di Dio. Mosè all’Egitto. Giona a Ninive. Città simbolo del potere totalitario.

Ma anche a Palermo, quanti inviati e profeti di Dio, testimoni di una vita nutrita dall’amore più forte della morte, più tenace degli inferi (cf. Ct 8,6)! Testimoni credibili di giustizia e di fede nel Dio che vede la sofferenza e ascolta il grido del suo popolo e decide di scendere in suo soccorso; del Dio che nella resurrezione del suo Figlio ha fatto deflagrare l’energia dell’amore che vince anche lo strapotere della morte. Il segno di Giona il profeta, per Gesù, è annuncio del suo amore che salva e libera perché arriva a morire per altri, accetta di rimanere sotto terra come sa fare il chicco di grano, fino a marcire, pur di dare vita ad altri chicchi.  «Il segno di Giona il profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra».

Fare memoria di Paolo Borsellino è soprattutto fare memoria della «tranquillità» di chi crede fino a disporre della propria vita perché si percorrano insieme vie di umanizzazione e la città degli uomini conosca la qualità di una convivenza segnata dalla giustizia, dalla legalità, dalla libertà, dalla pace, dalla solidarietà. Una città dove si respirano i valori più belli e alti della nostra Carta costituzionale. Una città capace di far festa, esperta di cammini di riscatto e di liberazione. Una città generativa e accogliente, capace di proporre un futuro di vita e di speranza alle nuove generazioni.

Chi assume il travaglio della propria terra e prende parte in prima persona al riscatto di un popolo che anela alla liberà, affronta l’ignoto e il pericolo, il deserto e il mare. Forte di un mandato. Si affida, fino a conoscere una profonda tranquillità. Come Paolo Borsellino e i suoi soci di martirio. Due ambienti, due elementi – il deserto e il mare – impervi e pericolosi, due ostacoli terrificanti in ogni cammino, che si vorrebbero evitare. Il primo è inospitale, sterminato nell’attraversarlo a piedi, con scarsi punti di riferimento e quasi del tutto privo di vita. Il secondo è ancora peggio: a un popolo di pastori e agricoltori qual era il popolo dell’esodo la sua imprevedibile instabilità e i suoi abissi dicono solo morte, forza del male e fossa di morte. Nessuna alternativa sembra percorribile, ogni salvezza è negata e la percezione della propria impotenza è devastante.  E dinanzi alle avversità e all’esperienza dell’impotenza, anche il cuore delle vittime si indurisce per il sopravvento della paura: «ebbero grande paura» e  «gridarono» (14,10).

Ma in chi accoglie nella profondità della sua coscienza il mandato profetico, l’ostacolo viene affrontato con audacia e determinazione, si resiste grazie alla fede: «il Signore, […] agirà per voi! […] Il Signore combatterà per voi, e voi starete tranquilli». Il Profeta fa da sentinella: vede l’ingiustizia, la denuncia e richiama il progetto originario di Dio. Fa vedere la luce che sta davanti e che si può raggiungere solo camminando insieme. Solo la communitas, sconfiggere il clan.

Nel profeta-testimone (martire) prevale l’amore per il proprio popolo, per la propria gente, per la propria città, a maggior ragione perché sostenuto dalla fede. «Per amore del mio popolo», scrisse nel Natale 1991don Beppe Diana alla sua gente di Casal di Principe. La fede che postula la consapevolezza della comune appartenenza e responsabilità della città che ti ha visto nascere, accolto e incluso nel libro della vita.

Il racconto e la memoria viva di questo evento dovrà servire come sostegno, forza per ungere i cuori e mettere insieme le forze, come invito a tutti, lungo lo scorrere degli anni, per non disperare, non arrendersi, non consegnarsi alla paura, né, tanto meno, cedere alle lusinghe dei nuovi faraoni. Ci è stato lasciato il segno dei martiri. Di questo segno facciamo memoria. In loro continua il segno del Figlio dell’uomo che rimase tre giorni nel cuore della terra, preludio della sua resurrezione, che è la speranza consegnata alle genti (cf. Mt 12,21) da Gesù il servo del Signore che annuncia la giustizia di Dio, l’amore sconfinato che trasfigura ogni cosa, vince il male con il bene, vince la morte dando gratuitamente la vita, l’odio con il perdono.

Stirpe e soci di questi profeti e martiri. La memoria è una pro-vocazione che chiama cristiani e laici, cercatori di giustizia e di pace, a ripensarci stirpe loro, a diventare a tutti gli effetti loro ‘soci’. A credere con loro e come loro che l’amore è più forte della morte! Che solo l’amore libera. Che solo l’amore costruisce nel bene e nella giustizia la città umana.