S. ROSALIA / Nella notte della tradizionale “acchianata”, la preghiera dell’Arcivescovo alla Santuzza per le tante ferite della città / OMELIA 4 SETTEMBRE

“La nostra città è segnata duramente da tanti eventi: penso ai giovani, alle droghe che si diffondono, agli incendi, il mio pensiero va a chi vive in sé il dramma di essere stata pensata come preda di giovani che credono di trattare il corpo delle donne come mezzo, come strumento. Io salgo al Santuario di Santa Rosalia con il cuore che chiede perdono”

La voce dell’Arcivescovo di Palermo Mons. Corrado Lorefice è la voce di chi indica alla città di Palermo, ai palermitani, le ferite recenti: il dilagare della droga giovani e giovanissimi, gli incendi devastanti, la violenza consumata durante lo stupro di gruppo al Foro Italico. Nella notte della tradizionale acchianata, durante il cammino verso il Santuario di Santa Rosalia, l’Arcivescovo si rivolge direttamente alla sua gente: “Salgo con voi, cammino con voi, per chiedere alla nostra Santuzza, perdono”.

Poche ore prima l’Arcivescovo aveva parlato con estrema chiarezza delle ferite della città: «Chi compie il male è insensibile alla sofferenza umana. Diventa imprenditore e propagatore compiaciuto di sofferenza. Questo è la mafia, questo sono gli uomini e le donne delle organizzazioni mafiose. Questo sono i piromani che appiccano il fuoco devastatore della nostra martoriata Sicilia. Questo sono i sette stupratori della ragazza dilaniata nel corpo e nell’anima al Foro Italico: giovani accomunati dal delirio di “onnipotenza virile”, scatenatosi su una donna trattata come mera “carne”’ da preda».

È un passaggio dell’omelia dell’arcivescovo Corrado Lorefice durante la messa per l’anniversario dell’assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, della moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente di scorta Domenico Russo alla chiesa San Giacomo dei Militari a Palermo.

«Uomini e donne, adulti e giovani, che hanno smarrito la passione morale – ha aggiunto aggiunge l’Arcivescovo – incapaci di amare, di rispettare e di onorare la vita altrui. Uomini e donne, pertanto, senza fondazione religiosa, indifferenti alla sofferenza umana, all’ingiustizia. Seminatori di dolore e divulgatori di iniquità. Idolatri della violenza. Vittime anche loro della deriva antropologica in atto frutto della sconfitta educativa che pesa sulla coscienza di noi adulti».

OMELIA ARCIVESCOVO DI PALERMO 4 SETTEMBRE, SANTUARIO DI SANTA ROSALIA SU MONTE PELLEGRINO

Siamo saliti tutti – l’intera Città è qui rappresentata dai Servitori delle Istituzioni civili e militari -, sul monte che la nostra Santuzza, S. Rosalia, ha scelto come casa delle «mistiche nozze» con il suo Signore, come talamo di intimità sponsale e come oasi di preghiera, di dialogo orante. Nella Bibbia il monte è il luogo dell’incontro affascinante e indicibile con Dio, proprio perché è anche il luogo della presenza dell’uomo a sé stesso, del riconoscimento di ciò che in definitiva lo abita dentro.

Abbiamo sentito anche noi il bisogno di salire sul monte. Rosalia continua a chiamarci in questo luogo. La festa cristiana, prima di tutto, è una opportunità per ritirarci e non per alienarci. Un tempo e uno spazio per lasciare alle spalle il trambusto, la confusione, lo strepitio del quotidiano, per lasciarsi lambire come Elia, come Rosalia, dal “suono di un silenzio sottile” (cf. 1Re 19,12). Per stare alla presenza del Signore: «Una voce! Il mio diletto! Eccolo, viene saltando per i monti» (Ct 2,8).

Per venire fuori da una vita superficiale e ritornare ad avere un’intelligenza più profonda delle cose, attingendo l’olio della fede e alimentare, così, la presenza del Signore nella nostra vita: «Le vergini sagge invece, insieme alle lampade, presero anche dell’olio in piccoli vasi» (Mt 25,4).

Per continuare il nostro dialogo con Dio: «Ora parla il mio diletto e mi dice: “Alzati, amica mia, mia bella, e vieni!”» (Ct 2,10). Per non arrivare in ritardo. Perché non ci accada di perderne la conoscenza: «Più tardi arrivarono anche le altre vergini [le stolte] e incominciarono a dire: Signore, signore, aprici!  Ma egli rispose: In verità vi dico: non vi conosco» (Mt 25,11-12). La lettera agli Efesini, pocanzi, ci esortava: «Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3,17-19).

La questione decisiva della vita, ci ricorda Rosalia, è essere «ricolmi di tutta la pienezza di Dio». È questione di calcolo di intelligenza, mentre è in atto un processo di ‘stupidità collettiva’, di perdita della ‘passione morale’ che ci connota come esseri umani. Rosalia ci ricorda di rimanere lucidi, di coltivare una rinnovata sapienza di vita, «di essere potentemente rafforzati nell’uomo interiore mediante lo Spirito [di Dio]» (Ef 3,16). Di prendere con noi olio di scorta. Non possiamo continuare ad essere distratti. La casa comune, la Terra, le nostre città, le nostre famiglie, i luoghi della politica, della cultura, della professione, della formazione, del tempo ibero, della scienza, oggi reclamano uomini e donne prudenti, saggi.

La parabola – che evidenzia il ritardo della venuta definitiva del Signore e quindi la frustrazione e l’affievolimento della fede della comunità matteana – anche a costo di far risultare antipatiche le vergini prudenti, vuole dire che ognuno deve rispondere di sé, e rimarca la necessità sapienziale di gestire la vita, i suoi ritardi, la sua complessità, tenendo alta l’attesa del ritorno del Signore. Continuando ad aver fede, ad aver speranza. E in questo nessuno può sostituirci.  Non possiamo demandare ad altri. È una realtà che non si fabbrica e nemmeno si trova lungo la strada dal primo ambulante che si incontra, ma che va ricercata con pazienza e fermezza, nel posto giusto e al tempo opportuno: «Andate piuttosto dai venditori e compratevene», dicono le vergini sagge (Mt 25,9).

Ma se anche quest’anno siamo saliti a Monte Pellegrino con il cuore sedotto d’amore, per stare in disparte con la nostra Santuzza al cospetto del Signore, non possiamo negarlo o rimuoverlo, siamo costernati, appesantiti. In Città, nell’aria, si respira ‘un’inquietudine e una pesantezza sociale’.

È ancora pesante l’olezzo dei roghi che hanno travolto l’ambiente naturale compreso e conteso tra monti e mare, che cinge come grembo ridente la città di Rosalia, la nostra Città. Ora ci appare come grembo sfiorito, arido, sterile, tenebroso, così come si mostra ai nostri occhi anche Monte Pellegrino, la dimora che Rosalia si è scelta per vegliare dall’alto su di noi, per ricordarci di dare un primato a Dio e prenderci cura – come fa lei – della casa comune che abitiamo.

Siamo sgomenti per le vite dilaniate dei nostri giovani presi d’assalto da incauti mercanti di superalcolici e da accaniti spacciatori di crack, venditori di una felicità contraffatta che stravolge i sentimenti, corrode la mente e i distrugge i corpi.

Siamo ancora sbigottiti dalle immagini del branco che si accalca attorno a una ragazza condotta al Foro Italico per lacerarla nel corpo e nell’anima. Un manipolo di giovani, accomunati dal delirio di ‘onnipotenza virile’, che si avventa su di lei come fosse ‘carne’ da preda. Epilogo del fallimento formativo di noi adulti, delle fondamentali agenzie educative della società.

Non possiamo essere gli amici, i devoti, i concittadini di Rosalia e violentare il suo corpo e la sua casa. Aggredire il corpo di una giovane per le strade e tra le case che Rosalia ha contribuito a liberare dalla peste che seminava morte e angoscia, povertà e separazione, significa aggredire e violentare Rosalia, la nostra Santuzza. Ogni giovane donna è Rosalia, ogni anfratto di Palermo è la città che Rosalia ha liberato e che vuole libera dalle pesti di ieri e di oggi. Tutte le volte che appicchiamo un fuoco per incuria o per dolo causando incendi che devastano terreni, boschi, fauna, case e monumenti d’arte (come dimenticare il rogo che ha distrutto quel gioiello di chiesa che custodiva il corpo di S. Benedetto il Moro!); tutte le volte che abusiamo di un corpo – tradendo così il nostro stesso corpo che è fatto non per predare ma per riconoscere, accogliere e amare gli altri -, quando una strada o una casa della nostra Città invece di essere via di incontro e spazio esistenziale di cura si trasforma in trabocchetto di agguati o in spelonca di abusi, noi profaniamo S. Rosalia e disprezziamo la sua e nostra Città. Rinneghiamo e ingiuriamo Rosalia, colei che nel canto chiamiamo “Rosa fulgida e profumata”.

Ma Rosalia, la sua vita, le sue scelte ci narrano amore non odio, cura non disprezzo, vita non morte, compassione non indifferenza, rispetto non prevaricazione, condivisione non predazione, liberazione non oppressione, custodia non distruzione. Perché lei è la vergine saggia: ha venduto tutto pur di guadagnare Cristo. Non ha svenduto la sua fede, la sua relazione con il Signore.

Oggi è festa se saliamo al monte del Signore, così da scendere a valle con l’intelligenza e la forza della fede. Per contribuire a cambiare il volto di Palermo. È questa la festa autentica che oggi dobbiamo vivere! Lo dobbiamo a Rosalia. Ai nostri giovani depistati. Alla nostra Città smarrita!

Photogallery “Acchianata” (a cura del Servizio diocesano per la Pastorale Giovanile): 

                                           

Photogallery Celebrazione eucaristica 4 settembre: