L’esortazione dell’Arcivescovo Corrado: “Prendiamoci cura di tutti, specialmente di chi porta le ferite della vita, le conseguenze della povertà e dell’esclusione determinata da altri uomini dai cuori induriti. Non scorgiamo nell’altro un nemico da eliminare ma un fratello da accogliere ed amare”

“Essere cristiani significa avere cuori spalancati, case aperte, occhi da fratelli, pane da condividere, audacia nel tracciare cammini di liberazione e di pace nella città umana, proferire parole di speranza”. L’Omelia durante la Celebrazione eucaristica (trasmessa in diretta televisiva) al Santuario Diocesano Madonna della Milicia

XXVI Domenica T.O. Santuario Diocesano Madonna della Milicia

Altavilla Milicia, 25 settembre 2022

Omelia di S.E. Mons. Corrado Lorefice, Arcivescovo Metropolita di Palermo

Gesù ancora una volta attraverso questo racconto ci narra il volto del Padre, fa risuonare l’annunzio bello, la lieta notizia contenuta nel nome Lazzaro: “Dio ha aiutato”. Dio aiuta sempre. Si prende cura, si ‘pre-occupa’. Questo è quanto – a dire di Gesù – alberga nel cuore di Dio: prendersi cura di tutti, specialmente di chi porta le ferite della vita, le conseguenze della povertà e dell’esclusione determinata da altri uomini dai cuori induriti. Oggi più che mai, assuefatti come siamo a scorgere nell’altro un concorrente o un nemico da eliminare piuttosto che un fratello da accogliere ed amare.

Prendersi cura è la logica, il modo di pensare e di agire di Dio. Ce lo ricorda sempre continuando a parlare a noi come amici nelle Scritture, attraverso Mosè (la Torah, la Legge) e i Profeti (cfr. Lc 16,29).

È la logica appena risuonata nelle squillanti parole del profeta Amos e del Salmo 145: «Bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano» (Am 6,6). Eppure «Il Signore rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati, rialza chi è caduto, protegge i forestieri, sostiene l’orfano e la vedova» (Dal Sal 145). A Dio sta a cuore la sorte del suo popolo. Ha uno sguardo attento e si commuove soprattutto per le categorie più fragili ed esposte.

Gli occhi di questo ricco invece non vedono, il suo cuore è chiuso come l’uscio della sua casa dove è gettato a terra e dimenticato Lazzaro; è accecato e indurito dalla vertigine del divertimento e del lusso. Dai suoi possessi. Non ha mai praticato la carità che la Torah stessa esige. “«L’idolo di cui è schiavo chi possiede molti beni è uno solo. È l’essere posseduto da ciò che si crede di possedere» (L. Monti, Le parole dure di Gesù). Lazzaro non può neanche sfamarsi con le briciole che cadono dalla tavola dei dissoluti, come invece fanno i cani. È un invisibile!

Ma il versetto dell’Alleluja, tratto dalla Seconda Lettera ai Corinti (8,9): «Gesù Cristo da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà», ci fa riconoscere nel povero Lazzaro (“Dio aiuta”) il povero Gesù (“Dio salva”). Lazzaro, nella sua indigenza, dà tutto, anche le sue piaghe, la sua estrema povertà. Lui che muore di fame, sazia i cani affamati e non caccia via nessuno. Un detto dialettale del nostro popolo recita: Lu poviru unn’avia e limuosina facia [Il povero non ne aveva ed elemosina faceva].

Gesù nei Vangeli ci viene consegnato attraverso l’immagine isaiana del Servo sofferente e paziente: «Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia» (Is 53,2-3). E Pietro nella Prima Lettera ai cristiani dell’Asia Minore, una minoranza irrilevante, perseguitata e scoraggiata, in riferimento a Cristo, l’Unto, il Servo inviato da Dio, scrive: «Dalle sue piaghe [dalle piaghe di Cristo] siete stati guariti» (1Pt 2,25). Gesù dà tutto sé stesso. Il suo corpo è dato come pane per sfamare, come pane essenziale per dare vita: «Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,51). Lui ha occhi per vedere le folle stanche e affamate. Nelle sue viscere di compassione continuano a muoversi le viscere di Dio: «Voi stessi date loro da mangiare» (Mc 6,37). Gesù continua a dire: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). «Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,15).

Il Vangelo, che è pura grazia, è anche codice profondo dell’umano, dell’essere ‘umani’. Oggi annuncia ancora che stare dalla parte di Lazzaro significa stare dalla parte di Dio e Dio aiuta i poveri, i piccoli, gli “scarti umani” (come li chiama Papa Francesco). Scarti che tutti – non solo i ricchi e i centri di potere economico che determinano le sorti del mondo – [che tutti] contribuiamo a produrre preoccupati come siamo del nostro benessere e del nostro tornaconto, sempre più insensibili alle sofferenze altrui, inclini al sospetto e alla strumentalizzazione dell’altro e facili ad esasperare le identità e le differenze. Pronti ancora ad armarci contro l’altro.

Essere cristiani, seguaci di Cristo, suoi discepoli e discepole, significa avere cuori spalancati, case aperte, occhi da fratelli, pane da condividere, audacia nel tracciare cammini di liberazione e di pace nella città umana, proferire parole di speranza.

Da questo Santuario che si affaccia sul Mediterraneo, ancora una volta, la Santa Madre di Dio ci dice ancora: «Fate quello che vi dirà» (Gv 2,5).