(L’Osservatore Romano / 15.09.2023) Sono passati trent’anni dalla sera in cui don Pino Puglisi è stato ucciso dalla mafia. Ne facciamo perciò oggi, con gioia e gratitudine, una memoria particolare. Siamo incoraggiati dalla parola del Santo Padre che, dopo aver visitato Palermo il 15 settembre di cinque anni fa, con sensibilità meravigliosa e profetica, oggi ha voluto rinnovare — in una lettera indirizzata a me vescovo ma rivolta ai presbiteri e a tutto il popolo di Dio — il ricordo di don Pino, della nostra chiesa, delle chiese di Sicilia, indicando l’esempio del beato martire Puglisi come via di riscatto e di annuncio autentico del vangelo.
Sappiamo bene infatti il motivo per cui padre Pino è morto. La sua spietata esecuzione si deve alla testimonianza di giustizia e di verità portata avanti da un uomo, da un prete, che ha vissuto il proprio ministero a Brancaccio come una chiamata alla fedeltà. Fedeltà al creato, fedeltà all’uomo, fedeltà al vangelo. Non si tratta di tre fedeltà, bensì di una sola.
Don Pino ha educato sempre i giovani al rispetto della creazione, li ha fatti crescere col senso della bellezza e della sacralità di ogni forma di vita, di fronte al quotidiano culto della morte in cui, soprattutto nel quartiere Brancaccio, erano immersi. Don Pino ha interpretato il proprio dimorare in un luogo dominato dalla mafia, dal suo potere e dalla sua logica, come un ascolto infinito del bisogno e del grido inespresso di un popolo, in attesa di una liberazione dall’oppressione e dalla schiavitù mafiose che sfigurano il volto degli umani e riducono le persone a sudditi. Don Pino ha sentito il suo stare dalla parte del popolo, il suo lavoro inesausto per sottrarre i bambini e i ragazzi alla mentalità della mafia (appoggiato da tante donne e tanti uomini, laici e religiosi, attratti dall’esempio di colui che tutti chiamavano affettuosamente 3P), come una risposta al vangelo delle Beatitudini, come un ascolto di quella parola scandalosa pronunciata dal suo Maestro e Signore: «Beati i poveri».
Così don Pino è stato uomo, così è stato prete, come un cristiano permeato da una grande capacità di ascolto di Dio e degli uomini, dallo stile della sinodalità. Credo sia questa la grande attualità odierna del suo messaggio e della sua figura, in una chiesa posta da Papa Francesco in un atteggiamento e in un cammino sinodali.
«La chiesa è sinodo», ci ha ricordato il Santo Padre sulla scorta del Crisostomo.
Ma sinodalità significa apertura all’altro, accoglienza reciproca nella comune sottomissione al vangelo e alla sua chiamata per l’oggi. Sinodalità significa compagnia dei discepoli di Gesù con gli altri discepoli, compagnia delle chiese cristiane, compagnia dei religiosi di ogni confessione e dei non credenti, accomunati dalla passione per l’uomo.
Quella passione che ha portato don Pino a morire, sorridendo al suo assassino e confessandogli candidamente che lo aspettava, sull’esempio del suo Signore, morto per amore dei nemici. Di noi, amati da Dio mentre eravamo ancora peccatori — dice Paolo — e rinati alla vita nuova in Cristo. In Lui chiamati a libertà.
di CORRADO LOREFICE