E’ stata la chiesa di San Giuseppe dei Teatini a Palermo a ospitare le giornate tematiche del Triduo che hanno condotto alla Festa di San Giuseppe, Patrono della Chiesa universale: Venerdì 17 marzo, giornata dedicata al “Padre della tenerezza”; Sabato 18 marzo, giornata dedicata al “Padre amato”; Domenica 19 marzo, giornata dedicata al “Padre lavoratore” con la S. Messa per il mondo del Lavoro presieduta da S.E. Mons. Corrado Lorefice, Arcivescovo di Palermo.
Lunedì 20 marzo, Festa di San Giuseppe patrono della Chiesa universale: alle 8.30 la S. Messa; alle 10.00 la S. Messa per le vocazioni sacerdotali presieduta da Don Silvio Sgrò, Rettore del Seminario Arcivescovile di Palermo “San Mamiliano”; alle 11.30 la S. Messa solenne per la Chiesa di Palermo presieduta da Mons. Vincenzo Talluto, Cancelliere dell’Arcidiocesi di Palermo; alle 18.00 la S. Messa per le vocazioni religiose presieduta da Fra Gaetano Morreale OFM, Vicario Episcopale per la Vita Consacrata; alle 19.00 i Solenni Vespri cantati; alle 19.30 la S. Messa per i devoti di San Giuseppe presieduta da Don Giuseppe Di Giovanni, parroco di S. Maria della Pietà.
Durante ogni celebrazione di lunedì 20 marzo verrà benedetto e distribuito il pane di San Giuseppe. Anche quest’anno l’itinerario è organizzato con il contributo dell’Ufficio diocesano per la Pastorale Sociale e del Lavoro, della CNA, della Casartigiani di Palermo, di Confartigianato Imprese, del CLAAI e del Progetto Policoro.
Chiesa S. Giuseppe ai Teatini – 19 marzo 2023
Omelia Arcivescovo di Palermo
Vorrei concentrare il mio e il vostro sguardo – illuminati dall’ascolto del Signore Gesù che ci ha parlato nella pagina evangelica appena proclamata in questa IV Domenica di Quaresima – sullo sguardo di Gesù.
Gesù vide l’uomo cieco (cfr Gv 9,1). Tutti gli altri lo ignorano. Gesù vide l’uomo anzitutto, ánthropon, “vidit hominem caecum a nativitate”, vide l’uomo cieco dalla nascita.
Oggi, nonostante la festa liturgica sia stata rinviata a domani, non possiamo non guardare alla meravigliosa figura di S. Giuseppe. E lo facciamo proprio a partire dal tempo liturgico che stiamo vivendo – la Quaresima – in preparazione alla celebrazione della Pasqua del Signore con azzimi di consapevolezza e di sincerità. In questo tempo liturgico, sacramento della nostra conversione a Dio.
Anche Giuseppe vide. Perché ha ascoltato. Da “«uomo giusto» (Mt 1,19), sempre pronto a eseguire la volontà di Dio manifestata nella sua Legge (cfr Lc 2,22.27.39)” (Francesco, Lettera Apostolica Patris corde). Giuseppe grazie alle Sacre Scritture, da lui costantemente meditate, e mediante ben quattro sogni, seppe ‘vedere’ un ‘altro’, riconoscerlo persona, e farlo venire alla luce. Seppe riconoscere il figlio non suo ma di Dio. Nascere è venire alla luce. Giuseppe – accogliendo ed entrando attivamente nel progetto che Dio realizza attraverso la vergine Maria promessa sposa dell’artigiano di Nazareth, fecondata dallo Spirito ancor prima di andare a vivere con lui –, ha permesso che l’Emmanuele, l’Unto e l’Inviato di Dio, venisse alla luce sulla terra.
Il cieco visto da Gesù è riconosciuto come uomo e, pertanto, rinasce. Viene generato alla vita e nasce alla fede. Conoscerà che Gesù, Colui che gli ha ridato la vista, è il Cristo, il Kyrios, il Signore della vita e della storia. L’Unico Signore. Un incontro che lo fa venire alla luce. Che lo illumina. I farisei, come precedentemente gli stessi discepoli, non vedono nel cieco una persona, ma un caso, un problema, secondo una norma svuotata dal suo significato e dell’intenzione più profonda di Dio: “Il sabato è per l’uomo e non l’uomo per il sabato” (cfr Mc 2,27). Si sovrappongono con le loro certezze morali, religiose e sociologiche. Temono la destabilizzazione del potere religioso e politico. Lo ‘cosificano’ facendone un oggetto dei loro discorsi da cattedra e dei loro interessi di leadership.
Farsi discepoli di Gesù, essere cristiani, appartenere alla Chiesa (noi frequentatori delle liturgie rischiamo di perdere il senso dell’appartenenza alla Chiesa, veniamo spesso soltanto a soddisfare il nostro individualismo religioso), avere coscienza dell’illuminazione e della rinascita battesimale, essere uomini e donne della Pasqua di Cristo, è vedere l’uomo, con gli occhi di Dio. Come Giuseppe, uomo giusto. Custodire uno sguardo puro, casto, non inficiato da pregiudizi e da interessi di ogni genere, e soprattutto dall’interesse più assillante dell’economia oggi dominante: massimizzare il profitto senza guardare in faccia l’altro, la persona, e i suoi diritti fondamentali. L’economia che sfrutta e calpesta la dignità degli uomini e in particolare delle donne; che fa deflagrare le guerre; che causa migrazioni ed esodi per un futuro di vita e di pace; che semina la morte delle giovani generazioni attratti da mercenari di droghe sempre più devastanti. Una politica spesso asservita agli interessi di questa economia, che non si pensa a partire dai diritti essenziali, come quelli della destinazione a tutti dei beni del lavoro, del pane quotidiano, della casa, della famiglia; dei giovani, degli anziani, delle persone con disabilità fisica e intellettiva, dei piccoli, dei poveri.
Il figlio putativo di Giuseppe è stato introdotto alla vita in un contesto umano e familiare, affettivo e lavorativo, che lo ha portato ad avere una sua dimensione spirituale profonda; alla vera armonia e onestà personale, alla liberazione del proprio cuore da pregiudizi e brame personali che alterano la realtà e le relazioni con gli altri e con le cose. Gesù ha maturato una personalità umana adulta capace di disporre di sé per il bene degli altri anche grazie alla presenza di Giuseppe, lavoratore, sposo, “’segno’ di una paternità più alta” (cfr Francesco, Lettera Apostolica Patris corde), quella di Dio. Anche grazie a Giuseppe ha potuto comprendere che lui era il Figlio di Dio, Inviato e Unto di Spirito per una missione salvifica universale, per far venire alla luce ogni uomo e ogni donna, “per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte e dirigere i nostri passi sulla via della pace” (Lc 1,79).
Gesù è un figlio che ha saputo essere generativo grazie alla Paternità di Dio, alla sua relazione con il Padre. Quel Padre che Gesù, in quanto anche vero uomo – oltre che “Dio, da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre” (Simbolo Niceno-costantinopolitano) –, [che Gesù] ha conosciuto anche grazie alla paterna presenza di Giuseppe nella sua vita, soprattutto in quei lunghi anni del nascondimento a Nazareth fino al suo battesimo al Giordano.
Vorrei chiudere con le parole di Papa Francesco che nel 2020 ci ha regalato la Lettera Apostolica Patris corde (8 dicembre 2020), in occasione del 150° anniversario della dichiarazione di S. Giuseppe quale patrono della Chiesa universale:
Essere padri significa introdurre il figlio all’esperienza della vita, alla realtà. Non trattenerlo, non imprigionarlo, non possederlo, ma renderlo capace di scelte, di libertà, di partenze. Forse per questo, accanto all’appellativo di padre, a Giuseppe la tradizione ha messo anche quello di “castissimo”. Non è un’indicazione meramente affettiva, ma la sintesi di un atteggiamento che esprime il contrario del possesso. La castità è la libertà dal possesso in tutti gli ambiti della vita. Solo quando un amore è casto, è veramente amore. L’amore che vuole possedere, alla fine diventa sempre pericoloso, imprigiona, soffoca, rende infelici. Dio stesso ha amato l’uomo con amore casto, lasciandolo libero anche di sbagliare e di mettersi contro di Lui. La logica dell’amore è sempre una logica di libertà, e Giuseppe ha saputo amare in maniera straordinariamente libera. Non ha mai messo sé stesso al centro. Ha saputo decentrarsi, mettere al centro della sua vita Maria e Gesù.
La felicità di Giuseppe non è nella logica del sacrificio di sé, ma del dono di sé. Non si percepisce mai in quest’uomo frustrazione, ma solo fiducia. Il suo persistente silenzio non contempla lamentele ma sempre gesti concreti di fiducia. Il mondo ha bisogno di padri, rifiuta i padroni, rifiuta cioè chi vuole usare il possesso dell’altro per riempire il proprio vuoto; rifiuta coloro che confondono autorità con autoritarismo, servizio con servilismo, confronto con oppressione, carità con assistenzialismo, forza con distruzione. Ogni vera vocazione nasce dal dono di sé, che è la maturazione del semplice sacrificio. Anche nel sacerdozio e nella vita consacrata viene chiesto questo tipo di maturità. Lì dove una vocazione, matrimoniale, celibataria o verginale, non giunge alla maturazione del dono di sé fermandosi solo alla logica del sacrificio, allora invece di farsi segno della bellezza e della gioia dell’amore rischia di esprimere infelicità, tristezza e frustrazione.
Termino facendo mia l’esortazione della Lettera agli Efesini: “Fratelli, un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate di capire ciò che è gradito al Signore. Non partecipate alle opere delle tenebre, che non danno frutto, ma piuttosto condannatele apertamente” (5,8-11).