Solennità del Corpus Domini, l’Arcivescovo cita Giuseppe Dossetti: “Il corpo del Signore sacrificato, immolato e offerto per noi vuol dire che è sempre a nostra disposizione ogni giorno, ogni ora, per tutta la vita”

Il solenne Pontificale nella Chiesa di San Domenico seguito dalla celebrazione dei Vespri e dalla Processione cittadina che si è conclusa in Cattedrale / OMELIA ARCIVESCOVO / PHOTOGALLERY

Solennità del SS. Corpo e Sangue di Cristo, Chiesa di S. Domenico 

2 giugno 2024

 Omelia Arcivescovo di Palermo Mons. Corrado Lorefice

 

In vista del Giubileo del prossimo Anno Santo 2025 a Roma, nella Chiesa di San Marcello al Corso, è stato esposto il famoso Crocifisso dell’artista catalano Salvador Dalì. Sono corso a vederlo durante i lavori dell’Assemblea della Cei. È un’opera che l’artista realizzò – nel pieno del suo fecondo travaglio spirituale -, nel 1951, ispirandosi a un famoso bozzetto – anch’esso esposto a San Marcello – che San Giovanni della Croce tratteggiò tra il 1572 e il 1575. Dalì ne rimase colpito.

Il dramma della croce è interpretato secondo la cifra dell’Amore, come dono d’amore del Padre e come adesione consapevole, libera e per amore da parte di Gesù alla volontà del Padre. Come dono al mondo che Dio ha tanto amato da donare il suo Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna (cfr Gv 3,16). Nel quadro Gesù crocifisso squarcia le tenebre che tutto avvolgono.

Un senso di disorientamento misterioso viene comunicato dalla prospettiva ardita prescelta per il Crocifisso, rappresentato dallo zenith, fluttuante nel vuoto oscuro che sovrasta il paesaggio mondo. Dalì non raffigura il volto di Gesù Cristo. È oltre ogni immaginazione nemmeno sapere se sul legno di quella croce egli sia ancora vivo o già spirato. Colpisce la bellezza del corpo del Crocifisso. Irresistibile. Sembra una scultura dentro la pittura. Il Cristo è privo degli elementi iconografici e storici della sua tribolazione (chiodi, corona di spine, sangue). Lo stesso cartiglio posto sulla croce in alto è senza scrittura leggibile. Ogni lingua vi può iscrivere i caratteri della sua sete d’amore.

È fortemente spirituale l’atmosfera che regna nell’arcana immagine. Ma la cosa che colpisce dell’iperrealismo della pittura è la vistosa mancanza di quel che dovrebbe esserci per ragioni fisiche e non di semplice tradizionale iconografia, e cioè i chiodi. Il corpo del Salvatore aderisce alla sua croce e pende pesantemente sulla scena del mondo ma nessun chiodo fissa quelle membra sull’infame e infamante patibolo. Il messaggio è immediato e travolgente. Egli sta in croce ed offre se stesso volontariamente, per libera scelta d’amore, non perché condannato e costretto. E nessuno – come si legge nel dialogo con Pilato riportato dai vangeli – avrebbe potuto decidere di togliere la vita a Cristo se egli stesso non avesse voluto – in consonanza con il Padre – farne dono per amore. Per un amore più grande (cfr Gv 15,13). Per riscattare l’umanità dalle tenebre della morte.

Il Dalì teologo qui supera perfino il Dalì pittore. Ma vorrei ricordare anche che Dalì ha anche  due dipinti dedicati al soggetto del cestino di pane. Uno è del 1926 e uno del 1945. Egli steso dichiara che il significato di quei cestini di pane o di alcune nature morte con pani e pesci va cercato nel loro riferimento all’Eucarestia, come tentativo di trasmettere dentro l’immagine la percezione di un pane in cui abita un mistero potente. La donazione di Dio, la donazione che è Dio, nel suo Figlio morto e risorto, rimasto con noi nel segno del suo corpo donato e nel suo sangue versato, nel pane e nel vino eucaristici.

Liberamente e per amore del Padre, Cristo, “mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio” (Eb 9,14), e ci ha donato il sacramento mirabile del suo Corpo. È lucidamente consapevole il Gesù che, come regista deciso e sicuro,  ci descrive Marco nel Vangelo odierno. Egli organizza la cena pasquale da celebrare e vivere con i suoi: “Allora mandò due dei suoi discepoli dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo  e là dove entrerà dite al padrone di casa: Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi» (Mc 14,13-15). È la cena per noi. Per noi!

Allora risulta chiaro che siamo noi i destinatari di questo eterno smisurato amore di Dio in Cristo Gesù, tutte le volte che faremo questo in sua memoria, che ci ritroveremo nelle nostre comunità di domenica in domenica, nel segno della fractio panis e prenderemo parte al Corpo e al Sangue del Signore Gesù Cristo realmente presente nel sacramento dell’Eucarestia. Il pane che mangiamo e il vino che beviamo sono il Corpo e il Sangue del Signore. “Questo è assoluto per noi: non può passarci per la testa il più piccolo dubbio o, se ci passa, bisogna subito che lo stronchiamo nella forza del Signore. […]  è il corpo del Signore che è sacrificato, immolato e dato per noi; ma dire che è per noi è dire qualcosa di più ancora: vuol dire che è sacrificato, offerto, dato per noi e che è sempre a nostra disposizione ogni giorno, ogni ora, è per noi per tutta la vita, fino all’ultimo momento, fino a che entreremo nell’eternità. Questo è il corpo del Signore che è per noi. […]  è la fonte, la sorgente di tutto quello che di divino ci può essere nella nostra esistenza e particolarmente,  […] è per noi perché ci dà lo Spirito Santo, sempre” (G. Dossetti, Omelia, 1 giugno 1986, 109).

E anche quest’altro pensiero ci deve ulteriormente sostenere ogni giorno: ricevere il Corpo del Signore significa “ricevere Dio, farlo nostro, renderlo, per così dire, essenza del nostro corpo e della nostra anima e lasciare trasformare da lui questo corpo così pesante e così opaco, e quest’anima così debole così pigra, nella luce pura. […] perché il corpo trasformato dallo Spirito diventa un corpo spirituale, un corpo omogeneo all’anima e omogeneo a Dio. Rivestire la luce pura: giovinezza eterna che è  luce purissima. E questo già in questa vita, ogni giorno, non ancora completamente, ma in una misura che, se noi vogliamo, si accresce giorno per giorno” (G. Dossetti, 110-111).

E ancora, mangiare il Corpo del Signore è mangiare “il vincolo della nostra unità: vuol dire che l’essere inevitabilmente uniti a tutti gli altri diventa sostanza del nostro essere, corpo e anima. Non possiamo più separarci, perché non siamo uniti con una corda che ci lega insieme, ma abbiamo mangiato il vincolo della nostra unità, siamo l’uno per l’altro come siamo di Dio” (G. Dossetti, 111).

E infine mangiare il Corpo del Signore, bere il suo Sangue, donati a noi significa molto concretamente che in noi comincia già la trasfigurazione del mondo, della storia, della città umana, della Casa comune che è il pianeta da noi abitato. Perché noi siamo corpi umani abitanti della casa comune, che mangiamo il Corpo di Cristo crocifisso, risorto e asceso al Padre, da dove ritornerà nel giorno della Parusia, della sua manifestazione nella gloria come giudice della storia. Siamo quelli che portiamo dentro i germi della nuova umanità trasfigurata dall’amore, riscattata all’egoismo, dall’idolatria delle cose, dalla nefasta ricerca di autosalvezza che ci porta a costruire spazi di potere e ad armare le nostre mani contro l’altro, gli altri. A dimenticare che ogni volto è il volto di un fratello e non di un nemico da eliminare, di un concorrente da raggirare.

Più noi cristiani celebriamo nelle città l’Eucarestia, e la viviamo con questa consapevolezza, e più contribuiamo a trasfigurare il volto della Casa comune.  Fattivamente, creativamente, con spendita di noi stessi. Nell’Eucaristia comunque portiamo l’anelito e il desiderio iscritto nei cuori di ogni donna e di ogni uomo di ogni tempo, di ogni cultura e di ogni angolo del pianeta,  ossia ciò che noi speriamo e attendiamo per fede: i Cieli nuovi e la Terra nuova, lo shalom eterno di Dio per l’eternità. Amen.

Photogallery di Antonio Di Giovanni