Partecipi dell’Amore del Padre, quello che “sta a monte”

Nel silenzio carico di speranza del Venerdì Santo, riascoltiamo le parole dell'Arcivescovo di Palermo Mons. Corrado Lorefice (dall'Omelia nella Messa del Crisma)

La celebrazione della Messa crismale, per noi popolo sacerdotale e particolarmente per i Ministri ordinati, è una felice e gioiosa opportunità ‒ soprattutto in questo prolungato e sfibrante tempo della pandemia ‒ per ritrovarci di nuovo nell’unica Sinassi eucaristica con «olio di letizia e veste di lode» (Is 61,3). Ed è anche un’occasione per verificare il vissuto della nostra comunione in Cristo. Nella Messa del Crisma, infatti, traspare il vero volto della Chiesa e si rivela il motivo per cui essa esiste: mostrare la sua incrollabile «fiducia nell’energia della Buona Notizia di Gesù di Nazareth, fondamento stesso del nostro essere comunità ecclesiale» (C. Lorefice, Lettera al Direttore del mensile Vita Pastorale, 4/ 2021). A Lui «il testimone fedele» (Ap 1,5) tutti guardiamo. Alla Sua testimonianza ci abbeveriamo per seguirlo, animati e compaginati dallo Spirito, sulla Sua stessa traccia (cfr 1Pt 2,21).

Oggi, tra l’altro, questa nostra Cattedrale si arricchisce della presenza dei confratelli Vescovi Mons. Carmelo Cuttitta e Mons. Vincenzo Manzella e anche del Padre Abate di S. Martino delle Scale Dom Vittorio Rizzone, ed accoglie l’amabile saluto dei carissimi Cardinali Arcivescovi emeriti Salvatore De Giorgi e Paolo Romeo.

«Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,21)

Sin dall’inizio della sua missione evangelizzatrice Gesù, proprio nella sinagoga di Nazareth, aveva conosciuto lo sdegno, la riprovazione fino al tentativo di eliminazione. Come annota Luca, lo condussero «fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio» (Lc 4,28-29). Questa scena di Nazareth ci proietta a Gerusalemme dove Gesù, ormai consapevole dell’avvicinarsi della sua ora, volle condividere la cena pasquale con i suoi. Era l’ultima volta che cenava con quelli che l’avevano seguito. Devoti sì, legati a lui, ma anche incapaci di comprendere in così poco tempo il «mistero nascosto da secoli nella mente di Dio» (Ef 3,9; cfr Col 1,26), adombrato nei profeti e che ora si rivelava in Lui, nel suo corpo e nella sua esistenza. Era l’ultima cena con loro. Gesù lo sapeva?

Forse sì. Probabilmente pensava «di perire sotto la lapidazione» (C.M. Martini, Omelia, 28 marzo 2002), la sorte destinata, come egli stesso aveva ricordato, ai profeti: «Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che sono mandati a te» (Lc 13,34). Forse credeva che su di lui sarebbe stata pronunciata una sentenza ordinaria, collocata dentro la ‘marginale’ storia del popolo ebraico. Non immaginava che una condanna a morte, palesemente ingiusta – la condanna del Figlio di Dio fatto uomo –, dovesse essere firmata proprio dal Procuratore Ponzio Pilato, rappresentante dell’Imperatore romano. La massima autorità politica del tempo si appropriava di quel verdetto di morte, inconsapevole che quella firma da lui apposta avrebbe collocato la vita e la morte di Gesù di Nazareth al cuore dell’umanità intera, idealmente raccolta nei confini dell’Impero. Quel condannato così sarebbe diventato il Salvatore di tutti gli uomini, non solo di Israele.

Nella sua formazione di ebreo credente, sin da bambino, Gesù aveva ascoltato che il Signore, pur di salvare il suo popolo, aveva «gettato in mare cavallo e cavaliere» (Es 15,1). E anche ora ricordava l’angelo che aveva fermato il braccio alzato da Abramo per immolare il figlio Isacco (cfr Gen 22,10-12); riascoltava dentro di sé le parole tenere e soavi che Maria meditava nel suo cuore (cfr Lc 2,19.51) e forse le ultime parole di Giuseppe, che aveva concluso la propria vita affidandosi e affidandoli sereno a Dio. Gesù in quella sera sentiva nel cuore l’amore infinito che gli era stato raccontato e di cui era stato nutrito. D’altronde, quel papà falegname era stato un buon padre. Ce l’ha ricordato Papa Francesco nella Lettera Apostolica Patris corde: «Come il Signore fece con Israele, così egli “gli ha insegnato a camminare, tenendolo per mano: era per lui come il padre che solleva un bimbo alla sua guancia, si chinava su di lui per dargli da mangiare” (cfr Os 11,3-4)». Ma, soprattutto, il Padre celeste di Gesù era il “Padre buono e compassionevole” (cfr Lc 15,20; Sal 85,15). Tanto da fargli intravedere la possibilità che proprio il Padre potesse intervenire per bloccare quella macchina di morte, che ormai avanzava con passo deciso e opprimente.

Pensieri che quella sera, in quella cena, si avvicendavano nel suo cuore. Fiducia nel Padre, infatti, significava anche poter chiedere che Egli ascoltasse il desiderio di vita del Figlio di continuare a fare del bene, di insegnare, di poter incontrare ancora tanti altri: tutte cose che ormai erano maturate e circolavano nel suo corpo di uomo, nel suo cuore abitato dai più alti sentimenti umani. Si era innamorato dei giorni dell’uomo, dei tramonti, delle albe limpide che spiavano silenti la sua preghiera elevata con il cuore colmo d’amore filiale. Ma la sua sensazione – il clima sottile che talvolta si respira dentro gli eventi capaci di segnare la vita – era che quella cena pasquale condivisa con i suoi più intimi stava prendendo la forma di un’ultima cena. L’ultima. Come se sentisse sul collo l’ansimare del traditore, il vociare dei soldati e della gente che si preparavano ad afferrarlo, quasi in assetto di guerra: «Come contro un brigante, con spade e bastoni siete venuti a prendermi» (Mc 14,48).

Ecco, erano quelle onde gigantesche di morte in procinto di travolgerlo a far sgorgare in Lui la sorgente divina dell’Amore e della Vita. Forse è a partire da quell’ultima cena che si leverà, dall’intimo del Figlio, il grido «Abbà, Padre» (Mc 14,36). Lo stesso [grido] oggi deposto dallo Spirito nel cuore di ogni credente e innalzato dall’intera creazione che geme e soffre (cfr Rm 8,15-23). Da sempre, infatti, la certezza della paternità amorevole del Padre accompagnava intimamente Gesù di Nazareth. L’Amore «che sta a monte di Gesù, che lo investe, che lo genera, che lo destina, che lo invia, che lo riempie di ogni potere e mette nelle sue mani ogni realtà. Questo è il Padre» (G. Dossetti, Omelia Messa “In coena Domini”, 1978). L’Amore fontale del Padre. L’Amore di Dio-Padre che trasudava in ogni suo sentimento umano.

«Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19; 1Cor 11, 24)

Ma ora, nella stretta della morte, questa percezione dolcissima si mutava per la prima volta in un grido, condiviso con tutti, con tutta l’umanità: di ieri, di allora, di oggi. E così, celebrando l’ultima cena, Gesù ne stava inaugurando una nuova. L’ultima diventava la prima. La prima di un mondo nuovo. Una cena che non finirà, fino alla fine dei tempi: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20), «fino al giorno in cui berrò il vino nuovo con voi nel regno del Padre mio» (Mt 26,29). Per questo infatti era venuto sulla terra: per portare a compimento l’opera iniziata dal Padre nel «Vangelo della Creazione» (Papa Francesco, Laudato sì).

Amore all’inizio ‒ «amante della vita» viene definito il Creatore dal Libro della Sapienza (11,24), Amore alla fine, nella morte del Figlio: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). In quella notte Gesù era ormai pronto a pronunziare le parole che attraverseranno i secoli, fino al suo ritorno glorioso: «Prendete e mangiate: questo è il mio corpo. Prendete e bevete: questo è il mio sangue» (cfr Mt 26,26-27). La commozione raggiunge il suo vertice. Se, come sappiamo, prima della morte tutta la nostra vita ci scorre davanti, Gesù in quella notte avrà rivisto gli occhi di Giuseppe e le braccia di Maria sua madre, e il cugino Giovanni, e poi il cieco nato e i lebbrosi, Giàiro, la fanciulla dodicenne, l’emorroissa, la vedova povera, la Cananea, Maria di Magdala. E Lazzaro, Marta e Maria. E quei suoi piedi unti di olio, e quel profumo che ancora lo riempiva, il profumo dell’amore che Gesù era riuscito a far sbocciare nel cuore di quella donna, nel cuore di ogni donna e di ogni uomo contagiati da lui (cfr Gv 12,1-11).

Non poteva ormai lasciare questi corpi amati. Non voleva che il suo corpo si staccasse da loro. Voleva restare nei loro corpi. Ancora oggi Lui vuole entrare e rimanere. E vede me, e vede voi. E da allora ci fissa con il suo sguardo, ci ama, ci cattura, riempie le nostre esistenze. E vuole che ci nutriamo di Lui, che rimaniamo in Lui, ed essere Lui, l’unico suo Corpo unito. Ed è allora che concepisce l’Eucaristia, per rimanere sulla terra, per restare Corpo in comunione con i nostri corpi. «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19; 1Cor 11, 24). Perché il suo amore possa incontrare tutti. Per continuare sempre, ogni giorno della nostra esistenza, per tutta l’eternità, a guardarci negli occhi, ad amarci. A guardarci come ha guardato, in quella notte, i Dodici che lo avevano seguito da vicino, i Dodici che aveva scelto. Possiamo immaginarlo, questo sguardo, posarsi inerme (e forse amabilmente ironico) su Pietro, impegnato a fare promesse ‘da marinaio’ pronte ad infrangersi sugli scogli della prima paura; ovvero [possiamo immaginarlo, questo sguardo] raggiungere addolorato il volto di Giuda, colui che rinnegherà l’amore ricevuto. E se Pietro gli resterà legato nel pentimento, icona indelebile della «chiesa santa (che) resta sempre in questo tempo anche chiesa peccatrice» (J. Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio. Questioni ecclesiologiche) ‒ come la sua guida, come la sua ‘Pietra’ ‒, Giuda no. Giuda tradirà l’amicizia, e per mezzo di lui il Maestro che aveva conosciuto i baci datori di vita, quelli di sua Madre e di suo padre Giuseppe, nonché dello Spirito, il «dolcissimo bacio che unisce in modo così stretto il Padre al Figlio» (Gertrude di Helfta, Exercitium divini amoris), dovrà sperimentare un bacio segno di morte.

E poi avrà guardato Giovanni, nell’atto di adagiarsi sul suo petto, di bisbigliare qualcosa. Ma Lui lo sapeva: per questo nella stessa notte del tradimento inventerà il ‘bacio’ dell’Eucaristia, la ‘carezza’ in sua memoria che vince ogni odio e ogni tradimento. Li avrà guardati tutti in quell’ora, in quel momento decisivo. Li aveva chiamati perché stessero con Lui. Non ci riusciranno. Fuggiranno via. Avranno paura. Non ce la faranno ad andare dove stava per andare il loro Signore. Senza lo Spirito Santo, senza il Respiro vivificante di Dio, il suo Fuoco d’amore, senza una Madre che raduna, non si può rimanere, vegliare con Cristo. Eppure Gesù li ha amati: «Vi ho chiamati amici» (Gv 15,15). Come a dire: “Anche se adesso non capite il mio amore, l’amore dello Spirito vi trasformerà”. Il P. J.-P. Jossua rileva che nel Salmo 118, quello che contiene: «un comandamento ad ogni versetto […], c’è una parola per me: “tu hai dilatato il mio cuore”. Nient’altro che un appello, e un appello all’amore. Solo la grazia e l’amore, nient’altro». E aggiunge: «Quanti credenti lo hanno capito? Quanti non credenti l’hanno imparato? (Brevi nuove, p. 36). Gesù è il Cristo, l’Unto, il Messia. Sa che l’unzione è la sua forza, la sua guida. Sa che deve inaugurare «il giorno della vendetta di Dio» che coincide con l’annunzio della compassione e della consolazione, della cura e della letizia di Dio per chi è spossato dalla miseria e dal giogo del dolore imposto dagli uomini ad altri uomini: «Lo spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore, il giorno di vendetta del nostro Dio, per consolare tutti gli afflitti, per dare agli afflitti di Sion una corona invece della cenere, olio di letizia invece dell’abito da lutto, veste di lode invece di uno spirito mesto» (Is 61, 1-3a). Vuole allargare i cuori di altri. Renderli capaci di uno sguardo di compassione. Vuole conquistarsi un popolo dal cuore dilatato. Un popolo sacerdotale: «Voi sarete chiamati sacerdoti del Signore» (Is 61,6).

«Coloro che li vedranno riconosceranno che essi sono la stirpe benedetta dal Signore» (Is 61,9)

Lo Spirito è il Respiro (Ruah, Pneuma) stesso di Dio. E dovrà esserlo anche per i suoi. Ma ora è il momento della prova, della mancanza. Sembra di poter ascoltare le sue parole. Come se dicesse: “Lo so, stasera – e non solo stasera – fuggirete, mi rinnegherete, sarete dispersi, sfiduciati, forse vi sentirete delusi, uno addirittura mi tradirà. Ma io vi darò la potenza dello Spirito Santo. L’energia che da sempre mi lega al Padre, io la darò a voi. Sarete sempre bisognosi e desiderosi di tornare al Padre. E ricevuto lo Spirito Santo, confermerete i fratelli. Non sarete voi a farlo, ma il perdono del Padre, che rigenera continuamente la comunione dello Spirito”. Anche voi partecipi dell’Amore del Padre, quello «che sta a monte» (G. Dossetti). Cosa prova il Signore a vederci oggi qui, radunati perché chiamati a “fare quello che lui ha fatto”? Cosa proviamo noi, carissimi figli e fratelli Presbiteri e Diaconi della amata Chiesa di Dio che è in Palermo? Lui ci ha visti. Ci ha amati. Ci ama. Ci conferma e ci invia.

Ci consegna il suo potere di amore, la gioia di servire «questa ‘stirpe’ nobile che è il santo popolo di Dio» (Papa Francesco, Incontro con i Vescovi, Sacerdoti, Religiosi/e, Seminaristi e Catechisti, Baghdad, 5 marzo 2021). Ci affida l’Eucaristia e ci consegna il grembiule del servizio, della custodia dei fratelli. Per lavare i loro piedi, soprattutto se hanno percorso strade di dolore o di smarrimento. Per imparare i cammini dell’amore che serve. Ci affida il suo Corpo. Ci affida il Corpo reale e il Corpo mistico: «Se voi dunque siete il corpo e le membra di Cristo, sulla mensa del Signore è deposto il mistero di voi: ricevete il mistero di voi», istruiva S. Agostino (Sermone 272). Il suo Corpo nelle nostre povere e fragili mani. Ci dice: «Date loro voi stessi da mangiare». Noi replichiamo: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci!». Ma lui insiste: «Date loro voi stessi da mangiare» (Mt 14,16-17). Oggi, in piena pandemia, mentre uomini e donne, giovani e anziani, amici e familiari, nostre sorelle e nostri fratelli muoiono soli e abbandonati, mentre le famiglie sono distrutte dalle antiche e dalle nuove povertà, in mezzo a politiche ingiuste, ad una sanità che fa fatica, come dare quella speranza che anche noi, a volte, non sentiamo vibrare nei nostri cuori? «Se l’anno scorso eravamo più scioccati, quest’anno – dice bene Papa Francesco – ora siamo provati» (Omelia, Domenica delle Palme, 2021). Duramente provati. La speranza, «vaccino efficace contro questo brutto virus […] che nasce dalla preghiera perseverante e dalla fedeltà quotidiana al nostro apostolato» sia per noi Vescovi, Presbiteri, Diaconi e Consacrati ‒ come ribadiva lo stesso Papa Francesco il 5 marzo 2021 a Bagdad ‒ «energia sempre nuova, per condividere la gioia del Vangelo, come discepoli missionari e segni viventi della presenza del Regno di Dio».

Ci è chiesto di nutrire il popolo che ha fame. Proprio noi, spesso sconvolti e senza parole. Ma non dobbiamo dare e dire parole nostre, dobbiamo dare Eucaristia: il Corpo Risorto di Gesù di Nazareth che sfama le nostre esistenze e quanti sono stati affidati alla nostra cura. Come con due pani e cinque pesci furono sfamate cinquemila persone, con il pane che diventa corpo di Cristo e il vino che diventa sangue di Cristo sfameremo noi e i nostri fratelli. Una kenosi estrema: il Cristo entra nel creato e nel lavoro dell’uomo per trasfigurarli, facendo suo il gemito di tutte le creature. Perché, se si fa Eucaristia, ogni gemito di morte si trasforma in gemito di vita, che nasce e rinasce dalla potenza dello Spirito. Vieni, Spirito Santo, e trasforma questo pane e questo vino nel sangue di Cristo. Vieni, Spirito Santo, e trasforma tutti noi in un solo corpo e un solo spirito! Ecco la rivoluzione eucaristica che ci attende. Lasciamoci contagiare e consacrare dal Corpo Risorto del Cristo. Entriamo nel Suo Corpo.

Nutriamoci e nutriamo di Lui. Celebriamo la pienezza del triplice Corpo di Cristo. Il Corpo di Gesù di Nazareth Risorto, il Corpo del Risorto presente nel pane e nel vino, il Corpo dei discepoli, di noi credenti diventati Corpo Mistico di Cristo e proprio per questo più reale del reale. Affinché ogni corpo sia unto dall’amore, accolto, rigenerato, consolato, perdonato, guarito e riceva il germe della vita che non finisce. Che Maria, radice dell’Eucaristia, faccia dei nostri cuori un grembo capace di accogliere e donare il Corpo di Cristo, Pane che dà la Vita, e la vita in abbondanza, Calice che dà la gioia, e la gioia piena ed eterna. Amen

Corrado Lorefice, Arcivescovo di Palermo

Giovedì Santo, 1 aprile 2021, Chiesa Cattedrale