Sin dal mio arrivo a Palermo ho stretto un rapporto di amicizia e di reciproca stima con Vincenzo e Augusta Agostino, attratto dalla loro indefettibile rettitudine umana e dalla sobrietà della loro salda fede.
La lunga barba bianca di Vincenzo Agostino ha rappresentato per noi tutti il segno di un impegno di cittadinanza responsabile e attiva. Ma soprattutto un pungolo e uno sprone alle istituzioni per giungere alla verità – non ancora arrivata nella sua interezza – sull’assassinio del figlio Nino e della moglie incinta Ida Castelluccio, uccisi nel 1989 dalla perfidia mafiosa ma anche oltraggiati dai subdoli tentativi di insabbiamento e depistaggio messi in atto dopo il tragico e drammatico evento.
La sua ricerca della verità, sospinta anche dall’amore di padre e di nonno, è stata condivisa da tutti coloro che ogni giorno si impegnano – proprio sulle orme dei tanti martiri della giustizia e della legalità – a resistere alla tracotanza e alla violenza del menzognero potere mafioso.
In una città che ha assistito al sacrificio di tanti uomini e donne delle istituzioni, della società civile e della Chiesa palermitana, possa la sua credibile e costante testimonianza continuare ad essere uno sprone nella costruzione di una città degli uomini giusta e solidale, libera dalle ‘strutture di peccato’ – come la mafia -, che generano scarti umani e seminano sofferenza, sopruso, collusioni, oppressione e morte.
Le esequie di Vincenzo Agostino saranno celebrate domani, martedì 23 aprile 2024, alle ore 11.00 nella Chiesa Cattedrale. Il rito sarà presieduto dall’Arcivescovo di Palermo Mons. Corrado Lorefice.
(foto di Maria Anna Giordano)
Omelia Arcivescovo di Palermo Mons. Corrado Lorefice
Funerali di Vincenzo Agostino
Vincenzo Agostino è stato da trentacinque anni – insieme alla sua amatissima moglie Augusta Schiera –, da quel tormentoso 5 agosto 1989, una vedetta, una sentinella, un vegliardo. Nonostante il buio della notte, allorché nel suo spirito poteva scendere una schiacciante angoscia, è diventato una fonte di incrollabile speranza per noi tutti, per questa nostra terra martoriata e per l’intero Paese; e particolarmente per i suoi cari e per noi che oggi lo salutiamo con il cuore spezzato ma con immensa ammirazione e con uno speciale debito di riconoscenza.
A Vincenzo si addicono le parole di questo enigmatico oracolo del profeta Isaia, inserito tra le profezie sulle nazioni pagane e in particolare su Seir, Duma (l’Idumea) schiacciata dall’Assiria. In questa toponomastica è concentrato un messaggio: il ‘silenzio notturno’ (Duma) rotto da un dialogo, il Signore che irrompe dal Sud e grida nella ‘tormenta’ (Seir).
Mi gridano da Seir: «Sentinella, quanto resta della notte? Sentinella, quanto resta della notte?». La sentinella risponde: «Viene il mattino, poi anche la notte; se volete domandare, domandate, convertitevi, venite!» (Is 21,11-12). È uno degli oracoli più enigmatici dell’AT. Entra in scena la figura della “sentinella” (il termine šōmēr, “colui che custodisce”) che dovrà osservare attentamente e riferire ciò che sta succedendo.
La domanda, ripetuta due volte, “quanto resta della notte?” (v.11), potrebbe di per sé significare “che ora è?”. Ma la risposta: “viene il mattino, poi anche la notte” indica la venuta dell’alba di un nuovo giorno che però è seguito ancora dalla notte, cosicché l’insistenza sul termine “notte” sembra insinuare un lungo e angoscioso perdurare delle tenebre. Il testo dunque annuncia che «è notte nello scenario della storia, le tenebre non lasciano comprendere né è dato calcolare quando giungerà l’aurora liberatrice (Sal 130,6-7). Ma c’è un uomo che con gli occhi penetra l’oscurità e misura i tempi: è il profeta. A lui ricorrono anche i popoli stranieri e nemici: che ora è? Che sta succedendo in questa lunga notte? Quando finirà? Il profeta non ha una risposta liberatrice. Conosce soltanto un ciclo dominato dall’inesorabile ritorno della notte; per quanto essa cessi e albeggi, siamo nell’ora delle tenebre. Ma invita a domandare di nuovo, casomai ricevesse nel frattempo una risposta precisa del Signore. E l’oracolo torna “al silenzio”, all’attesa» (L. Alonso Schökel – J.L. Sicre Diaz, I profeti. Traduzione e commento, Borla, Roma 2000, 216).
Ma il testo mette in luce anche una stretta connessione tra il tema delle tenebre attraversate con fortezza e dignità e quello dell’annientamento dell’orgoglio su cui si fonda il potere e le sue pianificazioni.
La lunga barba bianca di Vincenzo Agostino ha rappresentato per noi il segno della resistenza attiva e proficua alla mafia e alle tante forme del ‘male strutturato” che ardiscono eliminare finanche – come lui stesso ebbe a dire – il «bene di un figlio, di una nuora, di un bambino […] mai conosciuto»; che sterminano Nino, un onesto e accorto servitore dello Stato, la sua giovane moglie Ida e il bambino che avevano concepito da pochi mesi; insanguina le strade della città, sparge afflizione nelle case e nelle famiglie, pianifica depistaggi, compra silenzi e connivenze anche tra esponenti del potere politico e delle istituzioni dello Stato. Questa è la notte! La notte delle persone, la notte delle comunità, del raffreddamento dei cuori, dell’idolatria del potere e delle cose materiali. L’eclissi del patto di fedeltà. Degli alti valori umani. Del rigore etico privato e pubblico. Della formazione delle coscienze.
Ma quella barba è stata anche narrazione del suo vegliare nella notte, dell’uomo che con gli occhi penetra l’oscurità e attende con certezza l’irrompere della luce della verità che l’orgoglio e la tracotanza di uomini corrotti e alla ricerca di potere credono di sopraffare. Ha infuso speranza. Ha chiesto di non assopirci. Ci ha provocati a non cadere nell’indifferenza deresponsabilizzante e a non abituarci al male. Quella barba e quei capelli bianchi che esaltavano i suoi occhi pieni di luce nonostante le tenebre, sono stati per noi monito a rinnovarci, a rimanere desti, a porre domande: «se volete domandare, domandate, convertitevi, venite!» (Is 21,12).
La provata ma fulgida vita di Vincenzo e di Augusta – innamorati per sempre – ci sollecita a non indietreggiare dinanzi alle tenebre, a non abituarci al male, a non unirci agli empi e alle loro macchinazioni, a non patteggiare mai con i corrotti, a non farci avvincere dal laccio di una bramosia insensata e funesta (cfr 1Tm 6,9). Ha annunciato capacità di attesa, fermezza, indefettibilità, coerenza, resistenza, ricerca della verità e soprattutto speranza. Impegno per una città riscattata dal male. Lotta sincera, non simulata, alla criminalità organizzata, alla mafia, alle mafie che continuano imperterrite ad uccidere e a devastare le nostre città e le nostre case, i nostri figli.
L’Evangelista Luca nel Vangelo descrive l’anziano vegliardo Simeone «uomo giusto e timorato di Dio» (Lc 2,25), che sa attendere attivamente, dentro lo scorrere della sua vita, l’adempimento delle promesse messianiche di Dio al suo «popolo Israele». Nell’incontro con Gesù, nel quale Simeone discerne la realizzazione della promessa fattagli dallo Spirito di vedere prima di morire il Messia del Signore, l’anziano vegliardo non dice: “ora posso scomparire”, ma: “ora è finito il tempo della mia fatica”.
È finita la fatica di Vincenzo. Ora ci è chiesto di assumerla, di portarla avanti noi. Il testimone passa a noi. Siamo qui per questo, per continuare a vegliare nella notte. È il modo migliore per dimostrare a tutti voi cari congiunti, e in particolare a voi carissime Flora e Nunzia e a voi nipoti, a te carissimo Nino, la nostra vicinanza e la nostra gratitudine a papà e a nonno Vincenzo. In una città che ha assistito al sacrificio di tanti uomini e donne delle istituzioni, della società civile e della Chiesa palermitana, possa la sua credibile e costante testimonianza continuare ad essere uno sprone nella costruzione di una città degli uomini giusta e solidale, libera dalle ‘strutture di peccato’ mafiose e dalla corruzione e dalla falsità imperante.
Ci sostenga la fede in Gesù Cristo risorto dai morti, alimentata dalla speranza dei cieli nuovi e della Terra nuova, così come ha sostenuto Vincenzo e Augusta. Nel Sal 121,4-5 l’orante prega: «Non si addormenterà, non prenderà sonno, il custode d’Israele. Il Signore è il tuo custode, il Signore è come ombra che ti copre, e sta alla tua destra». Il termine šōmēr ricorre più volte e indica Dio stesso, chiamato “custode d’Israele”. Il piano salvifico di Dio si sta realizzando, ma occorre non stancarsi di vegliare e di attendere. Si tratta di convertirsi, di trasformarsi interiormente. Di ritornare al primato dell’uomo interiore (cfr Ef 3,14-16). Di convertirsi a Dio, abbandonando i falsi idoli che allungano la notte sulle nostre vite. Così da convertici all’uomo, alle persone, alla comunità, alla casa comune. C’è bisogno di uomini e di donne come Vincenzo e Augusta «che pregheranno, opereranno ciò che è giusto e attenderanno il tempo di Dio» (D. Bonhoeffer, Resistenza e Resa, San Paolo, Milano 1996, 370). Che scrutano la storia alla luce di ciò che sperano.