“Stasera stiamo assieme a riflettere, a pregare come ognuno sa fare. Per tornare alle radici del nostro essere, per riprendere la via della pace”: lo ha ribadito l’Arcivescovo di Palermo Mons. Corrado Lorefice intervenendo alla presentazione del libro Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, “Le parole della pace” (1987-2023, EDB, Bologna 2024), un volume che offre una prefazione a cura di Papa Francesco. L’appuntamento, introdotto da don Carmelo Torcivia, Direttore dell’Ufficio diocesano per la Pastorale della Cultura e dell’Università, era inserito nel ciclo di incontri mensili che ha come tema conduttore “Fine o metamorfosi del mondo?”.
Per Andrea Riccardi, “è evidente che tutti noi viviamo un grande disorientamento, perché quello attuale non è più il mondo della guerra fredda, non è più il mondo dell’impero americano, non è più il mondo di un certo multipolarismo; molti giocatori entrano in campo, alcuni tirano calci, altri li prendono, altri ancora assumono atteggiamenti aggressivi, molti si preoccupano e tutto è in movimento. Come cristiani non dobbiamo chiuderci nelle sacrestie o in maniera internista, i cristiani sono il “popolo della pace” e devono giocare la carta dell’incontro, del dialogo, del mettere insieme, dell’essere pacifici. Per quanto riguarda l’Ucraina, la pace bisogna trovarla e deve essere trovata presto”.
Di seguito, l’intervento dell’Arcivescovo di Palermo Mons. Corrado Lorefice
Vi saluto con affetto fraterno in nome di una comune umanità che ci raccoglie qui in quanto donne e uomini desiderosi di comunione e di futuro. Comunione e futuro – ha ribadito Mons. Lorefice – perché senza l’esperienza del nostro essere raccolti in una koinonia, in una vita e in un destino che riguardano tutti, non siamo uomini. Senza l’attesa del futuro, senza quell’immediato, corporeo protenderci verso il domani che è tutt’uno con il nostro desiderio di vivere, l’umanità non esiste, l’umano non si dà. Siamo qui stasera interpellati da quanto c’è nella nostra esistenza di più lontano da questo orizzonte costitutivo, e cioè la guerra. Guardiamo al mondo scosso da guerre lunghe, drammatiche, spesso silenziose e incancrenite. Ho visto con i miei occhi e sentito con i miei orecchi i flagelli della guerra del Congo e della Siria. La nostra casa comune, sempre più piccola e interconnessa, rischia oggi di tradire la propria intrinseca vocazione di giardino armonioso di vita e di relazioni fraterne e pacifiche, di spazio di comunione e di futuro.
Il 27 ottobre 1986, in tempo di guerra fredda e di clima minaccioso, fu convocata da Giovanni Paolo II una Giornata mondiale di preghiera per la pace, ad Assisi, a cui presero parte i rappresentanti di tutte le grandi religioni mondiali: 50 rappresentanti delle Chiese cristiane e 60 rappresentanti delle altre religioni mondiali. Si trattò di un incontro che vide pregare per la pace i credenti di tutte le religioni mondiali nella città di San Francesco. L’uno accanto all’altro, di fronte all’orrore della guerra. Il 29 ottobre ad un gruppo di rappresentanti delle religioni non cristiane il Papa disse «Continuiamo a diffondere il messaggio di pace. Continuiamo a vivere lo spirito di Assisi». La Comunità di Sant’Egidio ha raccolto l’eredità di quella Giornata, ed ha continuato a vivere e a promuovere lo “spirito di Assisi” – amicizia, preghiera e impegno per la pace – negli Incontri annuali di Preghiera per la Pace, dal 1987 fino ad oggi. Il libro che abbiamo stasera tra le mani, Le parole della pace, raccoglie gli interventi tenuti da Andrea Riccardi dal 1987 al 2023.
Il professor Riccardi ad Anversa nel 2014 ebbe a dire: «Giovanni Paolo II scrisse alcuni anni fa in un messaggio inviato ai nostri incontri: “La preghiera fatta fianco a fianco, pur non cancellando le differenze, manifesta il legame profondo che fa di noi tutti umili cercatori di quella pace che Dio solo può donare”. […] Le religioni – aggiungeva il Papa – “oggi in misura maggiore del passato devono comprendere la loro responsabilità storica di lavorare per l’unità della famiglia umana”. […] è aumentata – continua Riccardi – la nostra convinzione che la guerra sia una grande stoltezza perché il dialogo rappresenti la medicina dei conflitti. Ancor più di ieri, siamo convinti che la pace è un grande ideale che può ispirare politiche e vite personali. La pace è un ideale calpestato in troppe regioni del mondo: deve risorgere! La pace è il grande ideale per società svuotate e senza ideali» (Le parole della pace, 258-259).
Vorrei mettere in evidenza la valenza paradigmatica del gesto dell’incontro di preghiera di Assisi del 1986. Infatti, non presuppone «un accordo su una base comune da cui partire. […] il fatto di pregare assieme non significava questo» (G. Ruggieri, Cristianesimo, Chiese e Vangelo, 167). Lo precisa lo stesso Giovanni Paolo II nell’intervento fatto dopo la preghiera: «La forma e il contenuto delle nostre preghiere sono differenti, come abbiamo visto, e non è possibile ridurle ad un genere di comune denominatore. Sì, ma in questa stessa differenza abbiamo scoperto di nuovo forse che, per quanto riguarda il problema della pace e la sua relazione all’impegno religioso, c’è qualcosa che ci unisce» (Discorso, Piazza inferiore della Basilica di San Francesco, 27 ottobre 1986). «Infatti – come afferma G. Ruggieri – il gesto di Assisi non comporta in primo luogo un’apertura, un dialogo o altro simile, ma una comunicazione nella differenza. Ad Assisi i cristiani e gli esponenti delle altre religioni hanno comunicato in quanto di più intimo c’è nell’esperienza religiosa, la preghiera, lasciando tuttavia intatta la differenza delle loro preghiere. I gesti comuni, il pellegrinaggio comune, il digiuno comune, la conclusione comune stavano lì a mostrare che ciò che era specifico di ognuno, la preghiera, non per questo era fatta senza l’altro o accanto all’altro, ma con l’altro. La differenza religiosa è stata celebrata in comune come prassi di pace» (Cristianesimo, Chiese e Vangelo, 169).
Papa Francesco all’Angelus del 23 ottobre 2022 disse: «La preghiera è la forza della pace». Tutte le fedi, tutte le confessioni religiose, tutti gli amanti e le amanti del dialogo e della pace, tutti i ricercatori di pace, siamo chiamati – ancor più in questo tempo – a scegliere la via dell’amicizia, della preghiera e dell’impegno comunitario, diuturno ed audace, per la pace. Nessuna delega di responsabilità che ci appartengono, uno stucchevole aspettare una soluzione che pensiamo non dipendere da noi. Invocare Dio semmai significa concentraci profondamente, rientrare in noi stessi per attingere nella preghiera la nostra forza, quella della profezia della pace. Non si tratta però di un movimento facile e a buon mercato.
Per compierlo siamo chiamati infatti, in primo luogo, a tenere viva la memoria dell’orrore del secolo delle guerre mondiali. Non possiamo essere di nuovo catapultati indietro, non possiamo tornare al Novecento. Ricordiamolo a tutti quelli che vogliono rendere la guerra una fonte di guadagno, un flusso economico certo e redditizio. A quelli che vogliono speculare fomentando guerre che creano legioni di poveri a fronte di pochi ricchi, sempre più ricchi e potenti. Non possiamo cominciare se non ascoltando il grido che sale dalle vittime e dalle macerie di ogni guerra, di queste odierne nefaste guerre seminate da un’economia del profitto che genera «inequità» (Papa Francesco), scarti umani, degrado ambientale e sovvertimento climatico, causa di nuove povertà. Non dimentichiamo che una delle tante tragiche conseguenze delle guerre in atto nel mondo continua a consumarsi nel Mar Mediterraneo, dinanzi all’indifferenza e all’ipocrisia dei paesi europei: la vergogna dei naufragi, dei bimbi e delle donne annegati, dei respingimenti e delle torture nei lager della Libia. Ascoltare e dire “le parole della pace” significa per noi stasera rimanere accanto a questo dolore muto e immenso, a questa umanità schiacciata e senza voce in ogni Sud del mondo, che viene ferocemente respinta quando, in un numero davvero limitato, simile alla punta di un iceberg, si affaccia alle nostre coste, alle nostre terre, trovando ad accoglierla la retorica stanca e catastrofica dell’invasione, della sicurezza, dell’identità, della distinzione tra ‘noi’ e ‘loro’.
Siamo qui stasera anche donne e uomini di ogni fede. E con il nostro esserci testimoniamo, forse senza saperlo, il cuore di ogni religione. In modi diversi, con sentimenti e riti diversi, la religione dice un incontro, una relazione tra Dio, tra colui che chiamerei l’Altro, e l’uomo. Dice un aprirsi, un rivolgersi, l’esperienza e il desiderio di un ‘ri-volgersi’ dell’Altro nei confronti dell’uomo. Per la salvezza dell’uomo. Nella fede cristiana Dio dà e dona agli uomini e alle donne di buona volontà l’esempio dell’abbassarsi, del suo diminuire per incontrare gli uomini e tutte le creature. Dio, in Gesù di Nazareth, scende negli inferi (cfr 1Pt 3,19), che sono anzitutto gli inferi del cuore umano, per aprirlo alla speranza, alla riconciliazione. Dio si abbassa perché la donna, l’uomo, il creato raggiungano la loro altezza: l’altezza a cui sono chiamati. L’altezza più alta, il monte più alto. Il monte di Isaia in cui si raduneranno tutti i popoli della terra (cfr Is 2,2), è la pace. Il compito di Dio, il compito dell’Altro, è quello di aiutare ogni uomo, ogni donna di buona volontà a cucire e a ricucire le relazioni perché diventino il tessuto che copre la terra e riscalda tutti. Com’è possibile che l’uomo scelga la guerra? Quale follia colpisce la mente umana? Sembra un vizio inguaribile, un’ossessione millenaria, una droga invincibile.
Poco più di un secolo fa – come sappiamo – Albert Einstein chiedeva a Sigmund Freud (cfr il carteggio in Perché la guerra, 1933), il padre della psicoanalisi, di spiegare come mai l’uomo, pur consapevole del dolore e della distruzione che rappresentano il frutto amarissimo di ogni guerra, [come mai] l’uomo continui a chiudere gli occhi, a decidersi per la guerra. Per quale perverso circuito l’istinto di morte zittisca l’istinto della vita e dei legami affettivi. Rispondendo oggi, un secolo dopo, direi che la follia di chi sceglie la guerra – non esistono guerre giuste, «alienum est a ratione», la guerra è semplicemente “irrazionale” secondo la Pacem in terris –, ha un solo nome: cecità. Chi si decide per la guerra non vede i bambini che muoiono, le ferite che squarciano i corpi, gli ospedali che traboccano di viventi mutilati, di cadaveri… Non vede che, una volta entrati nel regno della morte, tutti i cadaveri sono uguali, al di là del colore della pelle, della nazione, dell’appartenenza. Perché chi muore ha una sola appartenenza: l’umanità. La patria, o meglio la Madre che a tutti appartiene e alla quale si ritorna è la Terra. La cecità è la causa ultima della guerra. E così la musica dei focolari, le nenie delle mamme e dei papà, i canti dei cuori innamorati vengono zittiti dalle urla di chi è straziato, colpito nel corpo o negli amori, e dai tuoni odiosi dei cannoni che annunciano cumuli di macerie e fossati di morte. Parlo di una cecità profonda. Sappiamo infatti che in primo luogo si vede e si sente con il cuore. In questo senso, ogni dichiarazione di guerra è un infarto dell’umanità, che blocca la circolazione e atrofizza la mente. Come si fa infatti a non capire che non esistono vincitori? E che ogni vittoria è solo una valanga di morti senza motivo? Che tra poco arriverà un’altra guerra, perché la violenza chiama violenza? La catena deve essere spezzata. I veri eroi non sono i guerrafondai spesso osannati o ricordati nei manuali di storia ma coloro che hanno dato la vita per rompere questa catena. Perché – si chiede ancora Einstein – perché l’uomo fa la guerra invece di godere dell’amore? Come si fa a non comprendere – ripetiamo noi stasera – che solo l’amore rende la vita piena e placa la sete di legami? E non il denaro? E non il possesso? E non la spartizione della ‘preda’? E non la conquista ai danni dell’altro? Nessuna guerra rende felici.
Ecco perché stasera stiamo assieme a riflettere, a pregare come ognuno sa fare. Per tornare alle radici del nostro essere, per riprendere la via della pace. La guerra pare mostrare ai nostri occhi una pervasività, una forza, una perennità che la connettono irrimediabilmente all’umano. Siamo forse gli unici viventi che sanno di dover morire. Perché cerchiamo il brivido di uccidere, di togliere la vita all’altro? Sappiamo di dover morire e invece di lottare per la vita vogliamo esorcizzare il nostro rifiuto della morte dando la morte agli altri. Come se dando la morte agli altri si potesse riprovare la sensazione di essere come dèi, in grado di togliere la vita! È qualcosa di sconvolgente. Eppure, la contemplazione angosciata del demone del male e della violenza non deve renderci «profeti di sventura» (Giovanni XXIII, Gaudet Mater Ecclesia). Prima di essere un mistero, la guerra è una scelta. La cecità che la muove ha un motivo profondo, una sorgente occultata. Per intenderla e per attingere l’energia giusta al fine di contrastarla abbiamo bisogno di tornare al corpo, di tornare ai corpi.
Ripartire dai corpi. Il corpo – lo sapevano già i Romani, lo sapeva Paolo – non vuole scissioni. Funziona solo grazie alle sinapsi che uniscono. E se l’Alzheimer è la scissione, la frantumazione delle sinapsi, allora chi decide la guerra ha una forma di Alzheimer. Nella sua mente le aree dell’accudimento e dell’amore si sono appiattite. E si sono scisse dalle aree della forza, che degenera per questo in violenza. Dobbiamo dirlo: la guerra nasce da una mente ammalata di una forma particolare di Alzheimer, un Alzheimer che fa dimenticare i volti dei bambini, la bellezza delle donne, il vigore degli uomini, la tenerezza saggia degli anziani. Fa dimenticare la fragranza di una mensa condivisa. La freschezza di un sorriso. Il calore di una carezza. Chi dichiara guerra è in preda a una drammatica perdita della memoria. Ha solo un obiettivo: una coazione a ripetere il dare morte, una coazione a distruggere, perché nella sua vita si sono persi o non ci sono mai stati abbastanza i segni profondi e nutrienti dell’umano. Un mio caro amico – il grande teologo Jean-Pierre Jossua – in uno dei suoi faccia a faccia con Dio, si domandava: la malvagità è frutto di «un’infelicità rovesciata in cattiveria», i grandi criminali, gli uomini votati al male, non sono stati forse bambini infelici? (cfr Se il tuo cuore crede… Il cammino di una fede, 107-106; 116-117). Non cuori destinati alla violenza, ma soggetti toccati da una mancanza radicale da cui nasce un tragico oblio. Forse chi dichiara la guerra ha dimenticato o non ha avuto la carezza tenera di una madre, la carezza forte di un padre. Solo bambini non amati possono dichiarare guerra. Possono essere accecati dall’odio, dal potere. Forse solo bambini non amati possono entrare nel delirio tragico violento e micidiale di giocare a fare gli dèi.
Nei corpi si imprime insomma il sigillo della ‘mancanza’ che genera violenza, che rende ammissibile, praticabile la guerra. Ma solo i corpi possono resistere. Solo ai corpi possiamo fare appello, perché nei corpi abitano le energie più profonde e curative delle ferite del creato. Il nostro compito di costruttori di pace, la nostra via di donne e uomini della pace è in fondo quella di non far sparire dalla terra il canto dolce dei corpi che amano e sono amati. Nell’inferno che viviamo, dobbiamo ricordare a tutti che nel cuore dell’uomo esiste la voglia di amare ed essere amato. Forse il nostro compito è quello di dire a ogni madre e a ogni padre: ama tuo figlio, amalo nella verità, nella pienezza, amalo tanto che il suo corpo diventi corpo d’amore. Ricordare che dove i corpi si mettono assieme per agire sulla società, per rappresentare le istanze altrui, per costruire ‘corpi intermedi’ lì si piantano i semi di una logica della mediazione opposta alla logica della guerra. Ricordare che dove i corpi si riconoscono e dialogano, a partire dalla loro verità, dai loro miti, dai loro racconti, ascoltati e rispettati, lì la guerra è impossibile. Le carezze materne e paterne, le strutture intermedie umane, il dialogo tra i popoli, il dialogo tra le religioni costruiscono le premesse di un mondo nuovo che continuiamo a sperare, a sperare contro ogni speranza, e che continuiamo a ricordare. Il monte alto di Isaia, la città della pace è la nostra patria, non i campi di battaglia. Il suono degli uccelli e dei canti di amore ci appartengono e non il suono delle sirene, non il boato, il fragore delle armi.
Per questo siamo a chiamati a dire, a gridare, che la partita non sarà mai vinta dalla morte. La vita risorge. Perché ogni corpo per nascere vuole una forza che riscalda, un calore che accoglie. Tutti i bambini nati in questi mesi in Russia e in Ucraina, in Terra Santa, nel Nord Kivu e nel Myanmar, continuano ad essere i veri vincitori che aspettano la vittoria completa, che anticipi la completa distruzione. Tutti le madri che hanno partorito lungo questi mesi ci ricordano la strada che gli umani non vogliono imboccare. Il corpo della donna deve entrare come realtà e come metafora nella polis, nella città degli uomini. Il corpo della donna. Il luogo in cui il maschile e il femminile diventano nuova vita, il corpo in cui si dà la coesistenza di due corpi diversi, senza crisi di rigetto. Il corpo della donna è il corpo della pace. Il corpo dell’uomo maschio è stato per secoli il corpo della guerra. Abbiamo bisogno di «imparare a vivere senza ammazzare» (Guccini, Auschwitz). «Non gli uni contro gli altri, non più, non mai» (Paolo VI, Discorso alle Nazioni Unite, 1965).
Mettiamoci allora stasera sulle orme dei grandi testimoni della non violenza, di coloro che hanno gettato il loro corpo nell’agone della pace e ne hanno fatto il grembo di una vita nuova: da Mahatma Gandhi a Martin Luther King, da Tsunesaburo Makiguchi a Jōsei Toda, da Giorgio La Pira a Pino Puglisi. Il cantiere della pace ha bisogno di audaci tessitori del dialogo, di costruttori di ponti di riconciliazione. Abbiamo bisogno di dialogo internazionale e di dialogo feriale.
L’invocazione che ancora oggi possiamo rivolgere ai «capi dei popoli belligeranti» può essere quella che Giorgio La Pira lanciava in suo articolo apparso nel dicembre 1967 dal titolo Per la pace in Medio Oriente, in «Note di cultura», 1968, pp. 55-60. Lo stesso articolo fu poi ripreso con il titolo Abbattere i muri e costruire ponti nel volume Unità, disarmo e pace, Cultura editrice, Firenze 1971, pp. 83-89. Sono parole di grande attualità non solamente perché avevano come riferimento il conflitto israeliano-palestinese, ma anche per l’odierna situazione di sfaldamento della comunità internazionale, di crisi dell’Europa, con tanti Stati che vanno avanti da soli, e di insignificanza politica dell’UE: «Perché – scriveva La Pira – non dare al mondo presente una prova del grande fatto che specifica l’attuale età storica: del fatto, cioè, che la guerra anche “locale” non risolve, ma aggrava i problemi umani; che essa è ormai uno strumento per sempre finito: e che solo l’accordo, il negoziato, l’edificazione comune, l’azione e la missione comune per l’elevazione comune di tutti i popoli, sono gli strumenti che la Provvidenza pone nelle mani degli uomini per costruire una storia nuova e una civiltà nuova?».
Attraverso questo libro Riccardi ci aiuta a tenere vivo lo «spirito di Assisi», ad avere fiducia nella preghiera, a dare forma alle parole della pace, a mettere insieme «uomini e donne di pace provenienti da religioni diverse, lontane o ostili da secoli» (Papa Francesco, Prefazione, 10). Se è vero che oggi, per il dilagare dell’iniquità, ci sono falsi profeti che affabulano e ingannano molti, è anche vero che in molti cuori l’amore non solo non si è raffreddato (cfr Mt 24,11-13) ma è infuocato di passione per la pace, la implora e la costruisce per la salvezza del mondo. «Il pessimismo –come affermava Riccardi nell’incontro del 2018 a Bologna – è un consigliere di morte. L’uomo e la donna di preghiera sanno che il mondo non è consegnato al male, ma sarà liberato perché Dio non l’ha abbandonato. Costruire ponti di pace e non rassegnarci ai muri e agli abissi significa credere che molto, che tutto può cambiare» (Le parole della pace, 285).