Carissime, Carissimi, Gentili Servitori delle Istituzioni civili, militari e religiose,
ci siamo riuniti in questa Cattedrale – in questo spazio umano-divino, fecondato e contaminato da popoli e da culture diverse, dove da secoli si celebra l’amicizia di Dio con le donne e gli uomini di questa nostra diletta Città bella e straziante. Nelle pagine della Parola di Dio appena proclamate – soprattutto nel brano evangelico – anche noi abbiamo trovato un’eco di questa amicizia fedele, in un giorno per noi tutti carico di memoria e di gratitudine.
Il passo dell’evangelista Luca (Lc 6,1-5) si trova nel contesto di una serie di dispute con alcuni farisei che mettono in discussione e criticano l’operato di Gesù e dei suoi discepoli. Qui, in particolare, a motivo dei discepoli che raccolgono e mangiano le spighe in giorno di sabato, contravvenendo così alla norma del riposo sabatico. Quale autorevolezza può avere un Rabbi che non sa educare i suoi discepoli a rispettare la Torah, la Legge? E Gesù risponde alla maniera dei rabbini, rifacendosi a un testo della Scrittura (1Sam 21,1-7) allorché Davide con i suoi compagni mangiò per fame nella casa di Dio i pani dell’offerta.
Nell’interpretazione della Legge, Gesù non perde di vista l’intenzione ultima e profonda della volontà di Dio: la centralità della persona umana e la gioia della condivisione del pane quotidiano – del pane essenziale dell’amore – nella fatica e nella gioia della giornata umana. La Legge è al servizio dell’uomo, non è data per ostacolarlo. Il sabato è memoria e pregustazione del pane fragrante della convivialità eterna che deve orientare l’impegno quotidiano e ordinario, la responsabilità che ognuno di noi porta dentro l’arduo e meraviglioso spartito della vita. Gesù guarda al bisogno di un cibo e di un sostentamento che alimenta la vita. Egli viene da Dio, dal Dio che ha il volto del Padre amante degli uomini, del Padre provvidente attento a che nessuno dei suoi figli e delle sue figlie manchi del pane della vita e della libertà e della gioia della convivialità. Dio ha pensato e vuole gli uomini liberi da ogni forma di oppressione.
«Signore del sabato è il Figlio dell’uomo» (Lc 6,5). Oggi, come allora, Gesù ci aiuta ad allargare lo sguardo. A custodire ampi orizzonti. Specialmente perché questa Parola ci viene affidata nel quarantesimo anniversario dello spietato agguato in cui persero la vita il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa, Prefetto di Palermo, la consorte Emanuela Setti Carraro e l’Agente scelto Domenico Russo. Una donna e due uomini liberi che hanno scelto di amare.
In un interessante manoscritto del NT, il Codex Bezae, viene riportato, dopo il v.4 di questo VI capitolo, un detto sconosciuto di Gesù pronunciato «lo stesso giorno vedendo qualcuno lavorare di sabato […]: “Uomo, se sai ciò che fai, sei beato, se invece non lo sai, sei maledetto e trasgressore della Legge”». Gesù chiede sempre – cosa alquanto urgente ai nostri giorni – di guadagnare un orizzonte più ampio della vita, un ‘fare’ che non perda uno sguardo autenticamente umano. Egli riafferma il primato dell’amore e della cura del prossimo al di sopra di tutto, persino delle prescrizioni legali. È la novità e la forza insita nella fede, nell’adesione a Cristo l’Uomo compiuto, il Figlio dell’uomo Signore del sabato.
«Fede», «credo», sono termini che il Generale Carlo Alberto non sbandiera ma che menziona spesso nei suoi interventi, soprattutto quando si rivolge agli uomini dell’Arma o ai suoi Cari, o scrive all’amata Dora strappata improvvisamente e prematuramente al suo affetto. In data 31 marzo – 1 aprile 1978, annota nel suo diario: «Sono sempre stato un credente (…) Oggi voglio avere quella fede; voglio avere più fede!». E manifesta la ferma volontà di voler tornare «alla pienezza di un “Credo”, di quel Credo che è stata per me una cara, dolce costante». Una fede provata, spesso invocata con l’umiltà di un bambino: «Sì. Credo in Dio, nell’Immenso. Anche se, su questa terra, forse perché siamo piccini piccini, qualche volta diventa difficile» (Intervista per «Telemond», 7 marzo 1978). Una fede che si incarna nel credere fino in fondo alle scelte della vita, nel portare avanti il «credo inalterato» degli alti valori umani, civili e religiosi che motivano e guidano l’esistenza personale, familiare, professionale e civica.
La fede del Generale Carlo Albero Dalla Chiesa ci illumina e ci guida ancora oggi: la fede negli uomini e nelle donne che “sanno ciò che fanno”, e la fede in Dio che ci vuole consapevoli e liberi da ogni condizionamento; liberi da ogni potere che limita e opprime la dignità umana e che impedisce la convivenza giusta, solidale, inclusiva e pacifica delle nostre città; soprattutto una convivenza libera dalle organizzazioni mafiose e terroristiche, dall’illegalità a dalle connivenze subdole e pervasive.
Sentiamo l’urgenza di custodire la memoria del Prefetto Carlo Albero Dalla Chiesa, di attingere ancora al suo luminoso orizzonte di vita alimentato dalla fede «in Dio, nell’Immenso». Custodiamo la responsabilità di rimanere fedeli all’insegnamento indirizzato ai suoi Carabinieri dalla sua cattedra di testimone verace, il 5 giugno 1980 a Milano: «Voi rifiutate le violenze ed il loro mercato, i mimetismi ed i facili baratti, i giudizi costruiti sull’opportunismo; voi rifiutate da persone leali, il falso e l’insinuazione eretti a sistema; respingete – anche con il silenzio – ciò che di ottuso e di folle può travolgere il bene di ognuno e di tutti» (Discorso di commemorazione del 166° anniversario della fondazione dell’Arma dei Carabinieri).
Uomo che «sa ciò che fa», professionista preparato e arguto, credente sulle orme di Cristo, Dalla Chiesa ci testimonia ancora «l’esempio di una vita pulita, fatta di entusiasmo», di «lavoro onesto e pulito», ci indica «la forza di resistere, la gioia del donare senza chiedere», l’impegno «di mantenere inalterato lo smalto della lealtà verso lo Stato e le sue Istituzioni», la disponibilità «alla macerazione della vita quotidiana, all’amore per un dovere che tutto pospone». Non ultimo, ci provoca ad optare sempre per «la difesa dell’inerme». Anche noi, come ci ricorda S. Paolo e ci testimoniano questi nostri Amici, «lavoriamo con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo».