L’eredità spirituale di Mons. Giovanni Muratore, “pane spezzato” per la sua Chiesa fino all’ultimo giorno terreno

I funerali sono stati celebrati presso la Chiesa del Santo Sepolcro di Bagheria. La Celebrazione Eucaristica è stata presieduta dall'Arcivescovo Mons. Corrado Lorefice / OMELIA ARCIVESCOVO

Sono stati celebrati lo scorso 19 agosto nella Chiesa del Santo Sepolcro di Bagheria i funerali di Mons. Giovanni Muratore, salito alla Casa del Padre all’età di 89 anni; era nato a Palermo il 1° ottobre del 1934. Il 20 luglio scorso aveva festeggiato il 66° anniversario di ordinazione presbiterale: era stato il Card. Ernesto Ruffini a ordinarlo insieme a don Mariano Lo Coco. Tra gli uffici ricoperti, quello di Rettore del Seminario di Palermo, di Penitenziere della Cattedrale e di Arciprete presso la parrocchia Madrice di Bagheria (dal 1974 al 1991).

A presiedere l’Eucaristia è stato l’Arcivescovo di Palermo Mons. Corrado Lorefice che nella sua omelia ha voluto condividere alcuni passaggi relativi agli ultimi incontri con Mons. Giovanni Muratore:

 

Chiesa del Santo Sepolcro – Bagheria

Esequie di Mons. Giovanni Muratore, 19 agosto 2024

Omelia

P. Giovanni nel Testamento che mi volle far leggere andando a trovarlo qualche giorno prima di essere ricoverato, aveva scritto: “Avvertendo che ormai sono agli sgoccioli della mia vita terrena, sento il bisogno di esprimere al Signore il mio filiale grazie per i numerosi doni di cui mi ha arricchito nella mia vita. Nonostante la mia povertà e miseria, il Signore mi ha chiamato al presbiterato, mi ha affidato parte delle anime da lui salvate col suo sangue, mi ha chiamato ad essere padre di futuri presbiteri […]. Ponendomi al cospetto di Dio, mio Padre, professo la mia fede in Lui che mi ha creato e mi ha fatto suo figlio nel Figlio; Professo la mia fede in Gesù Cristo che ha offerto la sua vita per la nostra salvezza; Professo la mia fede nello Spirito Santo che mi ha consacrato testimone del suo amore nella Cresima e annunciatore della Parola che salva nel sacramento dell’Ordine. […] Nella mia vita sono stato sempre disinteressato ai beni materiali e al denaro, pertanto posso dire di non possedere nulla e di non poter lasciare se non quanto ho avuto in dono dai miei genitori e da alcuni doni ricevuti in regalo. Di questo ringrazio il Signore che mi ha legato alla sua povertà. Le uniche cose di mia proprietà sono i libri”.

“[…] il Signore mi ha chiamato al presbiterato, mi ha affidato parte delle anime da lui salvate col suo sangue, […] il Signore mi ha legato alla sua povertà”.

Queste parole sono il miglior commento alla Parola di Dio contenuta nelle Scritture che sono state proclamate e che noi abbiamo riconosciuto come tale, parola proferita da Dio per noi, oggi qui riuniti per consegnare al suo giudizio misericordioso il nostro amato P. Giovanni Muratore. Stamattina, molto presto, a don Filippo Custode che per e-mail mi chiedeva sulle letture bibliche per questa messa esequiale, ho risposto: “La Parola contenuta nelle letture bibliche della XX Domenica del T.O-Anno B! È la Parola che P. Giovanni stesso ci spezza nell’ultima omelia della sua ultima ‘Pasqua della settimana’ dall’altare della sua vita di ‘anziano’ saggio e di pastore che ha spezzato il suo corpo per quanti gli sono stati affidati”. Fino alla fine!

“A chi è privo di senno ella [la Sapienza] dice: «Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate l’inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell’intelligenza»” (Pr 9, 5-6). Solo la Sapienza è sapiente. Noi siamo dei “privi di senno” chiamati ad andare diritti “per la via dell’intelligenza”. Chiamati a non farci spegnere l’unica vera seduzione che ci può e ci deve abitare, che ci può possedere. Mi sovviene, ascoltando queste parole del libro dei Proverbi, un testo del Profeta Osea : “Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare” (Os 11,4). E mi risuona anche il Salmo 33 che abbiamo avuto sulle labbra in risposta alla prima Lettura: “I poveri ascoltino e si rallegrino. Temete il Signore, suoi santi: nulla manca a coloro che lo temono”.

Rimanere nella kenosi, nell’abbassamento, nello svuotamento. Piccoli. Poveri. Creature fiere di cotanto Creatore che nel duo Verbo si è fatto creatura, carne, carne donata, vita consegnata per la vita del mondo, perché noi avessimo vita in abbondanza. La tua umiltà e la tua mitezza – P Giovanni carissimo – sono proverbiali, secondo questo testo del libro dei Proverbi!

Avere lo sguardo verso il cibo sostanziale che il Signore provvede: la nostra intelligenza, la nostra sapienza è questa. E, conseguentemente,  dare la vita essendo assimilati a Colui che ci dona la vita. Corpi donati uniti al Corpo di Cristo. Prendersi cura, dare vita donando la propria vita.

Il “mangiare me” (cf. Gv 6,57), il “mangiare la mia carne e bere il mio sangue” (cf. Gv 6,53.54.56) rinviano il discepolo all’operazione spirituale di assimilare nella propria vita la vita di Cristo. Di questa operazione fa parte la fede, il credere, fa parte l’ascolto della parola delle Scritture, fa parte la prassi, il fare concretamente la volontà del Padre. Non vi fa parte solo la manducazione eucaristica. La vita umana di Gesù (la sua carne e il suo sangue), come testimoniata nei vangeli, è il cibo di cui ogni credente è chiamato a nutrirsi affinché la vita di Gesù viva concretamente in lui. La Chiesa è il luogo in cui la concreta umanità di ogni credente (la sua carne e il suo sangue) è chiamata a conformarsi all’umanità di Gesù, alla sua vita. Affinché sia vero che una sola vita, un’unica vita lega il Signore e il suo discepolo. Lì la chiesa si manifesta come luogo dell’alleanza tra il Signore e il credente (L. Manicardi).

Nella Chiesa il credente-discepolo-presbitero, prima di tutto e di ogni attività pastorale legata al suo ministero, è chiamato a gustare e a far gustare a quanti sono stati affidati da sempre (dall’eternità!) alla sua cura – da qui il titolo di curato che si attribuisce ai preti –  la vita di Gesù che vive concretamente in lui!  Non è l’‘addetto alle cose sacre’. Ma l’uomo di Dio. L’amico di Dio. Il commensale nella vita di Colui che gli ha dato la vita e lo ha chiamato a donare in lui e come lui la vita per altri.

Grazie P. Giovanni perché abbiamo contemplato in te la vita di Gesù, il suo sacerdozio, la sua vita offerta, consegnata, donata. Il tuo legame a Gesù povero è il segno della tua fede, del tuo amore, della tua speranza in Lui. Del tuo legame fedele con Lui. E in Lui con noi.

Nel Testamento, P. Giovanni scrive anche: “Ringrazio ancora dal profondo del cuore chi ha operato nei miei confronti in maniera gratuita e con sentimenti di alta carità e tutti coloro che, contrariamente ai miei meriti, mi hanno voluto bene. A loro assicuro che anch’io, nel Signore, li ho voluti bene e, dal cielo dove spero potere andare, continuerò ad esprimere i miei sentimenti di bene pregando e implorando dal Signore tutto il bene che desiderano. […] Esorto i miei nipoti Gaetano e Nicola La Mantia  a vivere sempre in piena concordia e ad essere, in ogni momento, pronti ad aiutarsi e sostenersi nelle varie difficoltà  che potranno presentarsi”. Oggi una monaca mi ha scritto: “E tu devi sempre sapere che ti vogliamo bene. Perché questa è l’unica cosa divina che ci sia possibile!”. La “sola cosa divina possibile” che tu ci consegni è proprio questa P. Giovanni carissimo. Ai tuoi familiari di sangue e a noi tuoi familiari nello Spirito, nella fede.

Grazie P. Giovanni per questa altra parte di eredità che ci lasci.  Siamo testimoni della tua amicizia e del tuo desiderio struggente di relazioni umane forti, vere, fraterne, gratuite, fedeli. Grazie per questo tuo amore per una Chiesa fraterna, capace di interpretare lo spartito di At 2,42: “Erano assidui nella ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere”. Forse anche per questo sei stato un creativo amante e cultore della musica sacra. La ‘sin-fonia’ ecclesiale, delle relazioni sotto il potere della con-spiratio.

Chiamati ad essere “un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siamo stati chiamati, quella della nostra vocazione” (Ef 4,4).