XLII Anniversario dell’uccisione del Prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa
della moglie Emanuela Setti Carraro e dell’Agente della Polizia di Stato Domenico Russo
Cattedrale di Palermo, 3 settembre 2024
Omelia Mons. Corrado Lorefice, Arcivescovo di Palermo
Carissimi familiari delle vittime di Via Carini, Signor Ministro, Gentili Servitori delle Istituzioni Civili, Militari, Religiose, Accademiche, Carissime e Carissimi tutti,
nel Vangelo di Luca la predicazione a Cafarnao, la città scelta da Gesù, avviene dopo lo smacco subito a Nazareth, dove il suo annuncio non era riuscito a far breccia nei cuori dei suoi concittadini che faticavano a riconoscerne l’autorità.
Gesù, infatti, come narrano i versetti precedenti (Lc 4,16-30), aveva fatto il suo discorso programmatico nella sinagoga di Nazaret in giorno di sabato al cui centro sta la Scrittura, l’ascolto del Signore che ha sentito il grido del popolo oppresso e si è coinvolto in un’opera di liberazione.
Proprio nel giorno in cui si leggeva la Scrittura, presa dalla Torah e fra i Profeti, a Gesù era stata affidata la parola del Profeta Isaia prevista dal calendario delle letture. Era il famoso brano di investitura profetica di Is 61,1-2 dove la missione affidata all’Unto di Spirito è quella «di rimandare in libertà gli oppressi». Gesù terminerà dicendo a quanti nella sinagoga avevano fissi gli occhi su di lui: «Oggi, si è adempiuta questa Scrittura, che voi udite» (Lc 4, 20-21).
Il ministero di Gesù non consiste in sole parole, ma anche in atti, o meglio consiste in una parola autorevole che si manifesta in azioni che hanno ripercussioni sulla vita di altri uomini, e nella lunga durata. L’irruzione, con Gesù, dell’anno di grazia del Signore, fa vacillare il mondo degli spiriti impuri – megalomani (φωνῇ μεγάλῃ: grida a gran voce, precisa l’evangelista) bramosi di arrogarsi attributi divini – che pensavano di poter regnare impunemente sugli uomini.
La vita di Gesù è segnata dallo scontro con le potenze demoniache. Ha iniziato la lotta tentato nel deserto dal diavolo che, sotto varie forme, esercita il suo potere oppressivo e il suo delirio di grandezza. Gesù è il Santo di Dio, è il Messia, colui che libera prendendo per amore su di sé le ferite e le sofferenze degli uomini e delle donne che nelle città umane conoscono le tante forme di oppressione delle forze del male.
Negli indemoniati appare chiara la situazione di un uomo senza redenzione. Mettendo però in bocca ai demoni confessioni di fede perfettamente ortodosse, Luca mette in guardia i suoi fratelli nella fede e i lettori di ogni tempo: per potersi dire cristiani non è sufficiente la stretta ortodossia, giacché piò essere demoniaca. Liberare gli uomini è la vera adesione di fede, dell’apertura dell’intera vita al Dio amante della vita e liberatore dalla prostrazione disumanizzante causata dal male, da ogni forma di male, soprattutto da quello che prende forma in strutture perverse di peccato, di ingiustizia, di illegalità, di menzogna, di oppressione e di morte.
Sì, perché in ultima analisi la mafia è una sorta di Olimpo nel quale le varie divinità alternano le loro vicende con esiti cangianti. Se qualcuno osa ribellarsi al dio di turno, esplode il brivido del vero potere: togliere la vita, nei modi che lui decide. Può saltare una macchina piena di tritolo, può sopraggiungere un agguato micidiale, può essere soffocato il pianto di un bimbo nel cemento, può venire impiccata colei che era fiera di avere una vita nel ventre e non sapeva che i veri proprietari della vita sono gli dèi dell’Olimpo. La vita appartiene agli dèi della mafia, di ogni mafia. Che trova il suo miglior humus nella camaleontica postura dei colletti bianchi, sull’asse della commistione tra ricchezza e potere. Nell’Olimpo mafioso esiste un vocabolario altro, dove cerchi la parola ‘crudeltà’ e trovi ‘vittoria’, cerchi ‘giustizia’ e trovi ‘vendetta’, cerchi ‘un favore’ e trovi ‘asservimento’. Senza processo: “non avrai altri dèi all’infuori di me”. Bramare, ostentare predare, arricchirsi, uccidere, schiavizzare, torturare: queste le beatitudini dell’Olimpo mafioso.
Ecco perché i suoi tentacoli sono (e rimangono) pervasivi e invasivi: il dio mafioso è lì dove ritiene di potersi nutrire. Il ‘regno dei cieli’ per lui non è fatto di segni e parole, bensì di dominio e di soldi. Tanti soldi. Solo soldi, come icona del regno e del potere. E il sangue degli ‘infedeli’ che non si assoggettano – tanto sangue – feconda e rimpingua i profitti per nuovi investimenti. Ecco dunque il grande delirio: “sono io, siamo noi i padroni della vita e della morte”. Lo Stato? Per il dio della mafia è un’entità incapace, corruttibile, impotente, di fronte alla quale ci si può permettere non solo la scarica di adrenalina che dà il tendere un agguato o far saltare in aria un’auto ma anche il brivido superbo di cercare collateralismo, intese, oltre che passeggiare per le vie di Palermo, da ricercato da tutti ma invisibile a tutti. La vita di un dio mafioso ha un copione preciso: mi faccio vedere quando voglio, ci sono e non ci sono, ho le chiavi del regno.
Il Dio di Gesù Cristo libera dal dominio del male, dal potere degli dei. Chi ha fede autentica si unisce alla sua opera di liberazione, disposto anche a pagare di persona, come Egli ha pagato con la morte obbrobriosa della Croce: Gesù è il Messia, l’Unto di Dio, di Dio amante degli uomini e delle donne, che ha a cuore la loro libertà. Il Dio che nel suo Figlio unigenito fattosi carne come noi, morto e risorto per amore, traccia vie di redenzione e libertà e chiama altri e altre, a tracciare vie di riscatto nelle città umane ancora infestate dal male. Alla maniera di Carlo Alberto Dalla Chiesa, di Emanuela Setti Carraro, di Domenico Russo. Come hanno fatto loro. Con il loro pensare cristiforme. S. Paolo ricorda ai Corinti: «Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo». «La cristologia – scriveva K. Rahner – è inizio e fine dell’antropologia, e questa antropologia nella sua realizzazione più radicale è in eterno teologia» (Corso fondamentale sulla fede, 217).
Il Cardinale Martini in un’intervista del 1982 arrivò a definire l’uccisione di un fulgido testimone di Gesù Cristo e di un autentico membro della Chiesa, Vittorio Bachelet, come una sorta di “martirio laico”. E ne dava questa spiegazione: «Quando, in odium fidei, gli uomini minacciano al credente la morte, come esito della sua fedeltà, il Signore si serve di questa minaccia per interpellare il credente, e per chiedergli di raccogliere il tutto della sua vita per la suprema scelta religiosa di una testimonianza incondizionata di fede. Non questo, però, fu riservato a Vittorio Bachelet. Né dal Signore né dagli uomini gli fu chiesto il permesso, né gli fu offerta alternativa. Se consenso gli fu chiesto dal Signore (non già dagli uomini) nell’istante supremo, fu solo di docilità a ciò che era avvenuto. Non fu colpito nell’esercizio delle sue responsabilità ecclesiali, né per esse fu ucciso, né in rapporto esplicito alla sua professione di fede, bensì nel cuore della sua professionalità e della sua fedeltà a servizio della città degli uomini».
Risuonano ancora oggi le parole del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa durante l’intervista del 7 marzo 1978: «Sì. Credo in Dio, nell’Immenso. Anche se, su questa terra, forse perché siamo piccini piccini, qualche volta diventa difficile» (Intervista per «Telemond»). Una fede vera si incarna nel credere fino in fondo alle scelte della vita, nel portare avanti il «credo inalterato» degli alti valori umani, civili e religiosi che motivano e guidano l’esistenza personale, familiare, professionale e civica. Una fede che traccia cammini di liberazione nella città degli uomini. E che dimostra quanto siano piccini, piccini gli dei dell’Olimpo mafioso.