“Non abbiate paura delle fragilità”: l’omelia dell’Arcivescovo Mons. Corrado Lorefice durante il solenne Pontificale del Santo Natale

Nell’omelia l’Arcivescovo rievoca le storie di Yasmine, salvata da una Ong nel Canale di Sicilia, e di Ivan, partorito in strada a Palermo

Natale del Signore

Chiesa Cattedrale, 25 dicembre 2024

Omelia dell’Arcivescovo di Palermo Mons. Corrado Lorefice

 

«Avendo un Figlio unigenito, Dio l’ha fatto figlio dell’uomo, e così viceversa ha reso il figlio dell’uomo figlio di Dio. Cerca il merito, la causa, la giustizia di questo, e vedi se trovi mai altro che grazia» (Agostino, Dal Discorso 185).

Carissime, Carissimi, è questo il mistero che celebriamo a Natale. Il mirabile scambio: «O admirabile commercium! . . . O meraviglioso scambio! Dio, fatto uomo, ci dona la sua Divinità. Ecco il messaggio di Natale, messaggio della notte di Betlemme, che riecheggia in questa mirabile giornata» (Giovanni Paolo II, Messaggio Urbi et Orbi, Natale 1993).

Cosa significa e comporta per noi discepoli del Dio fattosi neonato d’uomo, partorito da una giovanissima madre “in mobilità” – dalla città di Nazaret e dalla Galilea salita in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, precisa l’evangelica Luca (cfr Lc 2,4) – che lo «depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo” (Lc 2,7), [cosa significa e comporta per noi] celebrare il Natale in questi giorni della vicenda di Yasmine e Ivan?

Yasmine, bambina undicenne della Sierra Leone, unica superstite di un ennesimo naufragio consumatosi nel Mare Nostro – non più mare di incontro e di scambi bensì barriera invalicabile, teatro di crudeltà e stagno di morte –, soccorsa grazie ad una piccola imbarcazione di una Ong, ad una ‘zattera’ di ‘pescatori di uomini’ in balia dei flutti.

Ivan, partorito in una notte fredda per strada, qui a Palermo, da una donna con mille fragilità dopo una gravidanza portata avanti senza alcun accompagnamento medico, senza cure e premure.

Nella stagione di una possibile guerra totale e in un tempo in cui ci siamo abituati alle esibizioni di forza, abbiamo paura della debolezza di Yasmine, di Ivan e della sua mamma. Li lasciamo in balia delle onde e in mezzo alle nostre strade, in balia all’ipotermia causata dai nostri cuori raffreddati e induriti, travolti dalla solitudine scavata dai pregiudizi mentali, etici, sociali, culturali e perfino religiosi.

Yasmine e Ivan chiamati a cantare la vita, rischiavano – come tanti altri bambini  – di essere inghiottiti dai marosi di una cultura dell’indifferenza e della morte che è diventata mentalità comune e visione politica. «Non c’era posto per loro» (Lc 2,7): per Yasmine e Ivan, come per il piccolo Gesù; per la mamma di Ivan come per Maria, la madre di Gesù.

Eppure per loro è stato Natale. Negli occhi di chi li ha soccorsi, i loro occhi hanno visto «il ritorno del Signore […] la salvezza del nostro Dio» (Is 52,8.10).

Il IV Vangelo oggi ha fatto risuonare una parola della gioia e di speranza: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14). Il Verbo continua ad incarnarsi in ogni carne fragile e in ogni carne che riconosce e si prende cura dei fragili e degli scartati di questo mondo, a maggior ragione se viene fatto perché sospinti dall’amore di Dio in Cristo Gesù. «Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto. A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati» (Gv 1,11-13).

L’«annuale memoria della nascita del tuo Figlio unigenito», come recita l’Orazione dopo la comunione della Messa vespertina della vigilia di Natale, rende la comunità cristiana che la vive – noi tutti qui riuniti – capace di gioia e di speranza. Siamo nella gioia perché anche a noi è dato di prendere parte al Segno inequivocabile di Dio consegnato allora dai messaggeri divini ai pastori nel Bambino nato a Betlemme da Maria di Nazaret: «Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia» (Lc 2,10-12).

Ma questo Bambino secondo il IV Vangelo è il Lógos, il Verbo, la Parola, la Sapienza eterna di Dio, la potenza creatrice e sostenitrice del mondo. Logós è un titolo che il IV Evangelista riferisce a Cristo, un titolo cristologico: «E il Verbo si fece carne (sàrx) e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14). Logós qui non significava soltanto “parola”, ma anche “pensiero”, e qualcuno arriva a tradurre “en archè en o lògos”: «all’inizio era il Dialogo» (D. Marzotto, La tunica e la rete); altri «“progetto” di Dio, o forse meglio “sogno” di Dio per il mondo: il Lógos è il “sogno” eterno di Dio di avere dei figli in un mondo di pace e giustizia, che vivano non solo in comunione tra loro e con il creato, ma partecipino alla stessa vita e comunione con Dio. Nella pienezza dei tempi, questo sogno è diventato progetto, si è fatto carne in Gesù di Nazareth, il Figlio stesso di Dio, per mezzo del quale era stato creato il mondo e per mezzo del quale lo stesso mondo verrà redento» (Giovani. Introduzione, traduzione e commento, a cura di R. Infante).

Si tratta, dunque, di «una Parola di Dio non statica, non puramente pensata ma forma di comunicazione» (D. Marzotto). Il Verbo infatti è pros, “rivolto” a Dio, ed era Dio stesso. E per questo si rivolge a noi e ci rivela definitivamente il nome di Dio: Dio con noi, Dio salvatore. Dio giammai contro di noi, tantomeno Dio devastatore, invasore, violento, escludente, bensì Dio compagno di ogni uomo e di ogni donna per ricostruire vie di vita, di comunione, di pace e di gioia (cfr Am 9,14). Con il Verbo che si incarna irrompe sulla Terra la Parola, il Dialogo, la Vita, la Luce, l’Accoglienza, la Pace, la Gioia. L’incarnazione del Figlio di Dio ci chiama, pertanto, ad essere propagatori di parola, di dialogo, di vita, di luce, di accoglienza, di pace, di mitezza, di perdono. Collaboratori della nuova creazione in Cristo.

Luca annota che «i pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto» (Lc2,20). Carissime, Carissimi, acquisiamo anche noi in questo Natale lo sguardo dei pastori, per riflettere nei nostri occhi lo sguardo delle stelle, degli angeli, del Cielo amico della Terra (in Lc 2,15 gli angeli vengono sulla Terra dal cielo e si allontanano «per tornare verso il cielo”, eís tòn úranòn). Quello dei pastori, è lo sguardo di chi, nella semplicità di cuore, veglia e scruta in profondità, di chi riconosce i segni salvifici, li accoglie, li contempla, di chi si rende disponibile alla forza rigeneratrice dei segni che contempla, di chi decide di stare dalla parte della cura della Terra e dei bambini, dalla parte del bene riconosciuto ed attuato, dalla parte dell’amore, della pace, della convivialità tra gli uomini e le donne – oltre i confini e le barriere mentali, culturali e politiche –, di chi si impegna a dare futuro alla Terra e alla vita, a bandire la guerra e ogni forma di violenza, alla fraternità e sororità  universale, a dare corpo alla pacem in terris. È lo sguardo di «tutto un mondo dimenticato dal mondo» ma che attira sempre e ancora l’interesse amante di Dio, un mondo festeggiato da Dio, «sulla terra come in cielo» (C. Bobin, L’uomo che cammina): «Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace sulla terra agli uomini di buona volontà» (Lc 2, 14).

È lo sguardo che individua nel Bambino nato in un rifugio di fortuna a Betlemme, in una condizione precaria e di fragilità, la realizzazione delle promesse di Dio, «il ritorno del Signore» (Is 52,8). È lo sguardo del «messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza» (Is 52,7), che canta speranza e non lancia invettive, che riconosce fratelli piuttosto che individuare nemici e aggressori.

«In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. […] quanti però lo hanno accolto […] non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati” (Gv 1,4-5.13). Generati da Dio, nel suo Verbo fattosi uomo come noi, portiamo nella nostra stessa carne la vocazione divina. Non al di là della carne, ma nella nostra carne, non al di là della vita, ma dentro la vita. Nell’umano che siamo. Non al di fuori di noi, ma dentro di noi, in noi stessi siamo già appartenenza e stirpe divina. A idolatrarci o a idolatrare ci sminuiamo già come uomini. Non dobbiamo ‘farci’ onnipotenti, né tantomeno sottometterci alle false divinità che subdolamente oggi ci vengono propinate. Colui che ci salva – l’unico! – è in me, in noi, tra noi!

Questo è il mistero che oggi celebriamo. Questa è il dono che il Signore Gesù affida a quanti lo riconoscono e lo accolgono nel Verbo incarnato. A noi cristiani, alla fraternità cristiana che è la Chiesa. A quanti oggi rendono la loro vita mangiatoia dove la Vergine Madre depone il suo figlio primogenito, che è l’Unigenito del Padre, Cristo Signore (cfr Lc 2, 7.11; Gv 1,14). A quanti fanno e faranno della loro vita una mangiatoia accogliente per ogni volto umano, soprattutto per gli scarti dell’umanità.

Buon Natale del Signore Gesù a tutte, a tutti. Viviamo con intensa gioia il Giubileo che stanotte si è aperto: “A tutti sia donata la speranza del Vangelo, la speranza dell’amore, la speranza del perdono” (Francesco, Omelia per l’apertura dell’Anno Santo Ordinario 2025).