399° Festino di Santa Rosalia
Discorso alla Città, Piazza Marina – 15 luglio 2023
Corrado Lorefice, Arcivescovo
Sorelle e Fratelli amatissimi,
è bello essere qui, come sempre, in tanti – tutta Palermo è qui! – perché chiamati dalla Santuzza. Siamo qui perché Lei ci ama e ci chiama! Si sa: chi ama, chiama.
Questo oggi festeggiamo: vogliamo rivivere nella gioia, nella gratitudine, il giorno in cui Santa Rosalia, la nostra Santuzza, dopo essersi ripresentata in sogno ad una donna ammalata, Girolama La Gattuta (26 maggio 1624), fece ritrovare il 15 luglio 1624 le sue spoglie mortali chiedendo che in questo evento fosse coinvolta – attraverso l’Arcivescovo di allora – tutta Palermo. L’anno seguente (13 febbraio 1625) la Santuzza, dopo aver ridato speranza al saponaro Vincenzo Bonelli, disperato per la morte della giovane moglie, lo inviò dal Cardinale Doria perché, abbandonato ogni dubbio sull’autenticità del corpo ritrovato a Monte Pellegrino, le sue Reliquie venissero portate in processione, al canto del Te Deum laudamus, per le strade della Città flagellata dalla peste. Si è servita di Girolama e Vincenzo, due umili persone capaci di sognare e di avere visioni, di portare un ‘e-vangelo’, una ‘bella notizia’: “Dio è con noi e non si dimenticherà mai di noi”.
La nostra Santa, la Vergine eremita del Monte Pellegrino, per quattro secoli e mezzo aveva atteso i Palermitani. E quando ha visto che la peste stava falcidiando la Città, li ha richiamati a sé per ottenere da Dio la grazia di ridare la vita ai corpi malati e moribondi. Il 9 giugno 1625, mentre il corpo di Rosalia attraversava una Palermo gremita di una folla in preghiera, la peste (la stessa di cui parla Manzoni ne I Promessi Sposi), l’epidemia si bloccò.
Ecco perché ho proclamato l’Anno Giubilare Rosaliano, in preparazione al Quarto Centenario di questi eventi. In quell’anno 1624, Rosalia si è fatta ritrovare. Sono passati quattro secoli, e noi siamo ancora riuniti per festeggiare, ricordare, rivivere, ringraziare. È proprio vero che il valore di un evento non si misura dalla risonanza immediata (quanti fatti ritenuti importanti vengono poco dopo dimenticati!), ma dall’ampiezza della sua onda lunga, dalla sua resistenza all’usura del tempo e della memoria. Ecco, Sorelle e Fratelli, la nostra gioia, il nostro stupore: dopo quattro secoli, il rinvenimento delle spoglie mortali di una ragazza palermitana morta quattro secoli prima ha per tutti noi un fascino attuale, lo viviamo e ce ne sentiamo coinvolti ‘come fosse oggi’!
Per vivere i festeggiamenti di Santa Rosalia con consapevolezza e pienezza, e non con l’atteggiamento di una massa anonima spinta dall’abitudine o dalla convenzione, dobbiamo confrontarci ancora una volta con la domanda di fondo: come mai le spoglie mortali di una giovane morta nel 1170 e ritrovate nel 1624 guariscono e danno la vita a corpi malati, sfigurati e moribondi? Come mai un corpo morto da più di otto secoli promana vita? Come fa Rosalia a essere segno e luce nella notte? In una parola: perché il corpo della Santuzza è vivo, guarisce e consola?
Vorrei partire, come vostro Arcivescovo, dalla risposta cristiana, dalla risposta cioè che ci viene dal Vangelo: il corpo di Rosalia Sinibaldi è vivo perché lei, essendo autenticamente e gioiosamente cristiana, lo ha nutrito con il corpo di un Morto Risorto, con il Corpo di Gesù di Nazareth. Si è nutrita del Sacramento dell’Eucaristia che celebriamo di domenica in domenica nelle nostre comunità cristiane. È il corpo di Gesù di Nazareth, che non è rimasto nel sepolcro ma il terzo giorno è risorto, ad aver dato vita e a dar vita alle spoglie mortali di Santa Rosalia. C’è un nesso intimo, stringente, tra il corpo di Gesù e il corpo dei suoi discepoli, dei credenti nel suo nome. Egli è risorto per restare – lungo i secoli – vicino a noi, per nutrirci, per consegnarci il segreto di una gioia senza fine e di una vita piena.
Sorelle e Fratelli, le spoglie mortali di Santa Rosalia, con la loro potenza di guarigione, continuano a chiamarci e a radunarci qui, tutti insieme, perché sono l’annuncio che la vita, la pienezza della vita, è nell’esistenza di Gesù di Nazareth. Egli è vivo, è accanto a noi, è il nostro compagno di viaggio. È il maestro, il vero esperto di umanità e di felicità, che ci invita ad andare a lui. È lui che rende santi, ovvero realizza, fa felice, la vita di coloro che gli si affidano. Egli ci ha amati e ci ama anche tramite Rosalia.
E accanto alla Santuzza, come non ricordare uomini a noi cari, a noi particolarmente vicini – anch’essi vivi pur se invisibili, vivi nel corpo vivo della nostra Città – come don Pino Puglisi, come Fratel Biagio Conte? Anche per loro, Sorelle e Fratelli, il segreto è stato nutrirsi dell’Eucaristia, del Corpo del Crocifisso. Anche la loro vita è stata ‘eucaristia’. Anche dalla loro esistenza donata ci sentiamo chiamati e radunati: avvertiamo vivo in mezzo a noi il loro corpo per la stessa ragione.
Sorelle e Fratelli, oh se giovani e non giovani, smarriti e confusi, capissero che la vera sostanza vitale, la vera energia viene dal nutrirsi di Gesù di Nazareth! Dalla fede, dalla fiducia in lui. È lui che ci dona una gioia intima, profonda e duratura, una vita che non muore. La più tragica crisi di astinenza, quella che toglie senso alla vita, che rende tristi, è proprio non ascoltare il nostro cuore, l’intimo più intimo di noi che cerca relazioni significative, capaci di dare pienezza.
Le caratteristiche della gioia che il nostro cuore cerca le ritroviamo in Francesco d’Assisi che, qualche decennio dopo, ha scelto come S. Rosalia l’unica vera ricchezza che è Dio. Due Santi che hanno affascinato e ispirato il Beato Pino Puglisi e Fratel Biagio. Noi tutti, al fondo, desideriamo una gioia vera – “la vera letizia” (FF 278) –, genuina, semplice, intima; e che sia piena, perfetta. Ecco: è l’Eucaristia – Sacramento del corpo donato da Cristo per amore – a svelarci la via sicura. E la svela a tutti noi, con una sapienza che oltrepassa ogni steccato e raggiunge il cuore di ognuno.
- Paolo VI considerava l’Eucaristia energia di gioia che “muove fortemente l’animo a coltivare l’amore «sociale»” (Enciclica Mysterium fidei, 70). Essa, Care Sorelle, Cari Fratelli, è un vero manuale di antropologia e di sociologia, un manuale della felicità, potremmo dire noi, alfabeto del senso e della verità della vita, risposta ultima a quella che oggi viene chiamata “emergenza antropologica”. Che cos’è questa emergenza? È quella dell’angoscia che abita nella nostra vita individuale, è la fatica di stare assieme, di sentirci popolo, di fare comunità, di maturare l’appartenenza all’unica famiglia umana, di crescere nella “amicizia sociale” (Francesco, Enciclica Fratelli tutti, 6).
L’Eucaristia risponde a queste domande con il linguaggio della presenza. Essa è il modo scelto da Gesù per esserci nella nostra vita. Era sua quella presenza avvertita dalla Santuzza, che per questo diceva: “Amo Cristo”. È la stessa presenza che ci ricorda come anche noi possiamo scegliere di esserci nella vita degli altri. Questo è il messaggio che ci raggiunge oggi, dopo 400 anni.
Parlo a voi, cari genitori. Lo sapete bene: i vostri figli hanno bisogno e desiderano la vostra presenza. Desiderano che sia come quella di Cristo: non invasiva ma disponibile, pronta ad accogliere e a valorizzare. Una presenza per dare amore e fiducia, una presenza per trasmettere un’autentica grammatica umana, una stilistica delle relazioni.
Parlo a voi, care educatrici, cari educatori. Anche voi lo sapete bene. Per educare bisogna essere presenti. Solo così si intercettano le esigenze e le sofferenze dei giovani e si sta vicino a loro: per sostenerli in quanto portatori di un sogno, in quanto protagonisti della creazione di un mondo nuovo.
E parlo anche a voi, che siete chiamati al governo della Città, Servitori delle Istituzioni locali, regionali e nazionali. Anche voi lo sapete. Chi governa deve essere presente. Non nel senso dell’occupazione degli spazi, ma nel senso del servire e della prossimità. Essere presenti ovvero essere vicini, disponibili all’ascolto e pronti all’aiuto. Là dove manca la presenza delle Istituzioni dello Stato prolifera non solo la miseria economica, ma innanzitutto la miseria morale. Ci commuove il messaggio che Fabrizio Lupo e Filippo Sapienza hanno raccolto da Fratel Biagio per la realizzazione di un carro umile e sostenibile: «Mettete la Santuzza in basso, perché lei vuole stare accanto alla gente». La nostra Santa Rosalia vuole ancora farsi trovare, lasciarsi raggiungere, per essere presente nella vita del suo popolo.
L’Eucaristia è presenza. Ma l’Eucaristia è anche mensa. Nell’Eucaristia veniamo nutriti dal Signore e impariamo a mangiare assieme. Impariamo a essere nutriti, a nutrire, a condividere il pane. L’Eucaristia è una mensa che Dio imbandisce nel deserto delle nostre solitudini affinché impariamo nuovamente a mangiare. Spesso dimentichiamo – e l’Eucaristia ce lo ricorda – che la civiltà è nata dalla condivisione del cibo: quando l’uomo invece di sfamarsi da solo con le proprie prede ha scelto di cucinare il cibo e di condividerlo, lì è diventato, siamo diventati umani. Il pane non condiviso si muta in veleno, a lungo andare, perché divide i fratelli. Il pane condiviso, invece, unisce i fratelli nelle loro divisioni.
Oh, di quanta Eucaristia avrebbe bisogno il mondo, il nostro mondo, dove c’è chi si abbuffa e chi patisce la fame fino alla morte. L’Eucaristia ci insegna a mangiare nella condivisione del pane. Ci ricorda che sulla mensa il cibo è per tutti, con un’attenzione speciale ai poveri, ai piccoli e agli ammalati. Perché i nostri bambini crescono se mangiano l’amore dei genitori che diventa cibo. Perché la famiglia si riunisce nei momenti in cui condivide il nutrimento. Perché i popoli trovano la pace nella giustizia del pane condiviso. In questo patto di fraternità universale che è l’Eucaristia nessuno può essere lasciato a digiuno, ma allo stesso tempo nessuno può nutrirsi da solo. La nostra Santuzza lasciò la ricchezza del palazzo reale per condividere la vita dei poveri, del popolo, per stare al cospetto di Dio a nome e in favore di tutti. E ancora una volta possiamo dire che così hanno fatto don Pino, Fratel Biagio, perché hanno imparato dall’Eucaristia il segreto di nutrirsi di Cristo e di nutrire nella semplicità i fratelli e le sorelle.
E poi l’Eucaristia è festa di nozze, evento di amore nuziale. Non per nulla comincia con un bacio, quello che il presidente dell’assemblea dà all’altare, al suo ingresso. Con lo stesso bacio l’Eucaristia finisce, quel bacio che viene dato dal prete a nome di tutti. È così che ricordiamo che l’Eucaristia è un incontro d’amore. E – come sanno i Santi – si capisce solo leggendo il Cantico dei Cantici.
Mi rivolgo a voi, a tutti quelli che stasera siete qui e siete legati da un patto d’amore e di fedeltà. Lo sapete: per stare assieme ci vuole la forza della durata. Bisogna vivere nella gioia i momenti di luce e reggere il tempo della tristezza e del pianto. Saper vivere l’incanto dell’altro e saperne attraversare il disincanto. Gioire della bellezza e rispettare la fatica. Questo significa volersi bene. Nella notte in cui si è consegnato a noi, Gesù di Nazareth ha attraversato tutto questo. Ha fatto memoria della bellezza, dell’incanto di quegli anni in cui ha annunciato il Regno, accolto le folle, guarito e liberato i malati e i posseduti, scelto i suoi discepoli. Ma ha anche fatto i conti con il tradimento dell’amato, con il disincanto dell’uscita di Giuda dal cenacolo. E tutto questo lo ha racchiuso dentro quella cena, per ricordarci che l’amore non è l’avventura di un minuto, l’esaltazione di un momento, ma una lunga dimora, una lunga fedeltà, un canto che nasce dall’accoglienza della grandezza e del limite, del dono e dell’abbandono. Amare è restare dentro una storia e farla propria fino alla fine. E questo non è sacrificio sterile, ma via ultima di una vita vera, di una felicità duratura. Non facciamoci rubare da nessuno l’esaltante travaglio dell’amore fedele.
L’Eucaristia, infine, ci fa fratelli tutti. Ecco, noi crediamo che a ogni uomo e a ogni donna impegnati a vivere la loro esistenza come esperienza di fiducia e di amore verso i viventi – verso tutti i viventi! – ecco, a costoro è consegnato il germe di vita che è stato donato all’umanità dal passaggio in mezzo a noi di Gesù di Nazareth. È lui che riempie la nostra Città e le nostre case, segno di chi ha scelto i poveri, di chi ci ha insegnato ad amare gli ultimi, a condividere la loro sorte. Lo sappiamo: le città, i popoli trovano salvezza solo nella misura in cui danno agli ultimi, agli scartati, la possibilità di risorgere nella loro dignità di persone, di protagonisti della loro storia.
Gesù di Nazareth ci ha donato l’Eucaristia per insegnarci queste leggi intime, costitutive della condizione umana. E i corpi di Santa Rosalia, del Beato Pino, di Fratel Biagio lo ricordano a tutti noi, senza alcuna distinzione tra credenti e non credenti, religiosi o non religiosi. Basta questo per accorgerci che non è normale, non è secondo la nostra vocazione, che le armi prevalgano, che Caino uccida Abele. Perché prima c’è la benedizione di Dio, prima c’è la bontà della creazione, c’è la bellezza del giardino con al centro l’albero della vita.
Certo, il vascello che portò la peste a Palermo in quel lontano 1624 è ancora tra di noi. È il vascello di morte che ammorba ancora la nostra Città. Il vascello che ancora approda nel nostro porto. Sul suo ponte di coperta ci sono tante icone, dietro le quali possiamo ancora leggere i nostri nomi e vedere i nostri volti.
C’è il nome e c’è il volto di una Chiesa che arranca nel seguire la via del suo Signore, tra povertà e persecuzioni (cfr LG 8,3); di una Chiesa, la mia amata Chiesa, che fatica ad annunciare con fraterna e gioiosa schiettezza il Vangelo.
C’è il nome e c’è il volto di una politica asfittica, vecchia, una politica – direi prendendo a prestito la frase di un noto filosofo – dell’“eterno ritorno dell’uguale” (Friedrich Nietzsche), una politica – lo abbiamo visto in questi giorni, lo abbiamo respirato in questi mesi – dove non pare esserci riguardo per la disciplina e l’onore della carica pubblica, messe in risalto dalla nostra Costituzione (cfr art. 54). C’è il nome e c’è il volto di una cultura – diffusa nei decenni scorsi e capace di mutare profondamente il nostro Paese –nella quale il successo a tutti i costi, l’apparenza e il denaro sono la sola misura della vita.
C’è il nome e c’è il volto di un’Europa stanca, pronta a cedere al nazionalismo, alla barbarie di una difesa dei suoi confini che è solo la premessa del crollo e del fallimento dell’umano e del diritto. C’è il nome e c’è il volto di un’economia crudele, nella quale i ricchi sono sempre di meno e i poveri sempre di più, in una logica dell’ingiustizia che divide gli uomini anche di fronte all’abisso della droga: la cocaina per i ricchi, il crack, che uccide, per i nostri ragazzi. C’è il nome e c’è il volto della mafia, che specula sulla disperazione e approfitta dello smarrimento generale e delle connivenze omertose, per i suoi affari sporchi, che succhiano il sangue del futuro di Palermo.
Ma la peste, il vascello di questo morbo contagioso, non è l’ultima parola. Oggi come allora. C’è un altro vascello, quello dei migranti, dei senza diritti, che molti vorrebbero rimandare indietro, respingere, se possibile cancellare, e che invece per fortuna continua ad avanzare, con il suo carico di umanità, con i suoi volti e i suoi nomi. Su questo vascello salgono, accanto alle sorelle e ai fratelli migranti, i volontari di Mediterranea e del progetto Cum–Finis, le donne e gli uomini che operano per una politica dal basso, per la rigenerazione dei quartieri, per un’antimafia vera e quotidiana; su questo vascello ci sono le comunità cristiane delle periferie urbane ed esistenziali; come anche gli studenti, i docenti protagonisti della proposta di legge per l’intervento sociosanitario sulle dipendenze; la Caritas diocesana e le Associazioni per la disabilità, impegnate nel Centro diurno per una città inclusiva che non lascia indietro nessuno.
C’è Palermo, Sorelle e Fratelli miei. Su questo vascello dobbiamo salire tutti assieme con Santa Rosalia, perché è il vascello della vita, è la nave di un amore autentico e quotidiano che anima le esistenze di tutti noi e che siamo chiamati – come la nostra Santuzza – ad ascoltare e a seguire. È la nave dell’Eucaristia, la nave del sogno di una Palermo eucaristica. Perché spazio della presenza, della mensa, dell’amore, della fraternità.
Dietrich Bonhoeffer, il pastore protestante giustiziato dai nazisti nel Campo di concentramento di Flossenbürg, il 9 aprile 1945, nel Natale del 1942 scrisse per alcuni amici un testo dal titolo Dieci anni dopo. Un bilancio sul limitare del 1943, dove con audacia e lucidità chiamava per nome le cause e le responsabilità della “grande mascherata del male”.
In realtà il testo era un programma per il futuro, una sorta di “regola di vita” per gli «uomini schietti, semplici, retti», cioè quella generazione di uomini e di donne di cui c’è bisogno – dice Bonhoeffer – per la «resistenza interiore» e per non essere più «testimoni silenziosi di azioni malvagie». Ma «il male – scriveva ancora – si presenta nella figura della luce», e proprio questa è la conferma della sua «abissale malvagità». Senza dire che – ricorro ancora alle sue parole – «la stupidità è un nemico del bene assai più pericoloso della malvagità. Contro il male si può protestare, si può smascherarlo, se necessario ci si può opporre con la forza; il male porta sempre con sé il germe dell’autodissoluzione, e lascia sempre un senso di malessere nell’uomo. Ma contro la stupidità siamo disarmati». Dal punto di vista di Bonhoeffer, quello che stava accadendo al popolo tedesco era proprio questo. Un popolo vittima della stupidità di cui si serve il Male. La stupidità vista cioè come la Grande Complice della follia e dell’annientamento nazista. Secondo Bonhoeffer il male si serve degli stupidi, cioè di chi non avendo mai coltivato il gusto per il pensiero e lo spirito sono facile preda e merce di scambio per le propagande ideologiche dei dittatori e degli influencer (affabulatori) di turno. Per questo la Bibbia «dice che la liberazione interiore dell’uomo alla vita responsabile davanti a Dio è l’unica reale vittoria sulla stupidità».
Quelle parole risuonano anche per noi stasera. Per tutti quelli che siamo in questa piazza, ai piedi della Santuzza, e di quanti ne hanno raccolto l’eredità fino ad oggi.
Perché le spoglie terrene di Santa Rosalia, rese vive dal Cristo Risorto, ancora una volta diano a Palermo la guarigione dalle pestilenze dai tanti nomi e provochino l’incontro con Gesù di Nazareth, presente in ogni uomo e in ogni donna ‘periferia della città’. Ripartiamo insieme stasera con Padre Pino Puglisi, Fratel Biagio Conte e con i martiri della fede e della giustizia di questa nostra Città che per molti anni hanno imitato e con noi festeggiato la nostra meravigliosa Santuzza.
Viva Palermo e Santa Rosalia!
(photo Cattedrale Palermo – Team Turismo e Cultura Progetto Policoro)