Messa del Crisma
Omelia
Giovedì Santo ‒ 14 Aprile 2022, Chiesa Cattedrale
Corrado Lorefice – Arcivescovo di Palermo
Care Sorelle, Cari Fratelli,
con commozione torniamo a celebrare tutti insieme la Messa Crismale in questa nostra chiesa cattedrale. Si capta una profonda gioia. Lo rivela il brusio dei cuori in festa per la grazia di questo convenire, insieme al vostro Vescovo, attorno alla sinassi eucaristica, forma e nutrimento della nostra comunione sinodale. Saluto con grande affetto l’intero popolo sacerdotale che è in Palermo e in particolare voi, cari presbiteri, che oggi come me, con il cuore colmo di gratitudine, ricordate il giorno dell’Ordinazione. Saluto con fraterno affetto i Vescovi che arricchiscono questa nostra santa assemblea con il loro carisma apostolico, e anche i carissimi Diaconi, i Consacrati e le Consacrate.
Siamo qui oggi a celebrare un rito di consacrazione e di invio. Un rito fondato sul potere sanante e avvolgente dell’olio che tonifica, unge e guarisce. Il crisma è quello del servizio. L’unzione è per servire e non per comandare. L’unzione è per essere ai piedi. È per chinarsi di fronte a ogni fragilità. L’Olio che profuma ci raggiunge e ci manda. Ci dispone ad andare al di là di noi. A cercare un altro profumo, il profumo che salva, quello delle pecorelle del gregge del mondo. L’Olio Crismale non è un profumo di élite. Esserne toccati, unti, consacrati vuol dire sentirsi pronti ad accogliere tutti i profumi, tutti gli odori, anche quelli più nauseanti che ci giungono dal cuore della terra, dalle strade delle nostre città.
Oggi si tratta di odori che ci lacerano e ci straziano. Gli odori delle macerie, delle bombe. Odori di morte. Di corpi umani uccisi e dilaniati. Di bimbi straziati, di donne abusate. Gli odori delle periferie esistenziali e sociali del nostro territorio diocesano che conosce nuove povertà, morti violente, prevaricazioni e abusi di potere. Sono questi gli odori che il Crisma ci consegna e a cui ci manda. Non per nulla quest’anno il Crisma contiene anche l’olio ricavato dagli ulivi del Giardino della Memoria “Quarto Savona Quindici”, coltivati a Capaci, luogo della strage che colpì il Giudice Falcone e la sua scorta. Ricorre infatti il 30° anniversario di quel tremendo evento, pianificato e attuato dalla ferocia mafiosa particolarmente efferata in quegli anni: insieme a Giovanni Falcone e a Francesca Morvillo, persero la vita gli agenti Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Come non ricordare anche il Giudice Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Eddie Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina ed Emanuela Loi. Si tratta di vittime della violenza, di ieri come di oggi. Vite preziose che hanno testimoniato un’esistenza messianica, redentiva, fecondatrice di nuove rinascite.
L’Eucaristia che celebriamo è quella in cui ascoltiamo che il Messia viene mandato a loro: ai poveri, agli ultimi, agli sventurati della storia. Per l’evangelista Luca, Gesù interpreta ed esprime la sua missione servendosi del profeta Isaia. Lo Spirito lo sospinge a dare la buona novella ai poveri, a mettere in libertà gli oppressi (cfr Lc 4,17-19; Is 61,1-9). Sono loro la famiglia di Gesù di Nazareth a cui questa celebrazione ci unisce. Siamo chiamati a entrare in questa famiglia e farci legare ai poveri e alle vittime dall’amore di Gesù, dal suo piegarsi per lavarci i piedi.
Riconosciamolo, sorelle, fratelli! Abbiamo bisogno che i nostri piedi siano lavati da Lui. Nei cammini dell’esistenza ci siamo caricati di tante fatiche, di tante fragilità, di tanti smarrimenti. Ed eccoci ora seduti, tutti assieme, per essere purificati da Lui. Accettiamo di essere tutti fratelli e sorelle dai piedi sporchi che hanno bisogno di essere mondati dal Signore che si abbassa.
Certo, l’Eucaristia del Giovedì santo ha un sapore familiare. Ha in sé l’intimità di quella che gli ebrei chiamano chaburah, o havurah, la riunione di credenti che si sentono famiglia e si proteggono dal male del mondo attraverso il reciproco riconoscimento nella fede. Come ci ricorda Benedetto XVI: «Noi siamo la chaburah di Gesù, la sua famiglia, che egli ha fondato con i suoi compagni di pellegrinaggio» (Il cammino pasquale, 92). Eppure, nell’Eucaristia, nella Pasqua consegnataci dal nostro Signore, abita un dinamismo diverso, che dilata e rompe i confini, che raduna in forza di un’energia messianica capace di assumere il male della storia, così come ha fatto Colui che è disceso agli inferi (cfr 1Pt 3,19) e che per primo è rimasto da solo «defraudato dai propri diritti ed esposto inerme a tutte le umane invadenze», colui che non si è protetto «ma è andato alla deriva, in alto mare» (H. U. Von Balthasar, Il chicco di grano. Aforismi, 56). Per essere con noi, con tutti e per tutti. «Come questo pane spezzato – leggiamo nella Didaché , IX,4 – già sparso sui monti è stato raccolto per farne uno solo, raccogli così la tua chiesa, dai punti estremi della terra nel tuo regno».
Raccogli o Padre tutti gli uomini. Di tutti i tempi. Di tutti i luoghi. Sia questo Crisma il segno di un’unità salvifica del genere umano. La Chiesa che celebra questa Eucaristia deve essere questo: «Dio – afferma la Costituzione conciliare Lumen gentium, 9 – ha convocato l’assemblea di coloro che guardano nella fede a Gesù, autore della salvezza e principio di unità e di pace, e ne ha costituito la chiesa, perché sia per tutti e per i singoli il sacramento visibile di questa unità salvifica». In virtù del Crisma noi tutti siamo unti per un’unità salvifica a favore di tutti, della famiglia umana lacerata da individualismi, violenze e guerre. Come il nardo versato da Maria sui piedi di Gesù riempì di profumo la casa di Betania e tutti ne furono inebriati, compreso Giuda che ne denunciò lo spreco (cfr Gv 8,1-11), cosi il Crisma, che consacra i figli e i ministri dell’unico popolo di Dio, ci affida «il compito di edificare comunità ecclesiali che siano sempre più famiglia, capaci di riflettere lo splendore della Trinità e di evangelizzare non solo con le parole, ma con la forza dell’amore di Dio che abita in noi» (Francesco, Angelus, 31 maggio 2015).
Sorelle e fratelli, l’umanità non è stata creata perché trovi i modi per distruggersi. Certo, il male avanza. In questa guerra e in ogni guerra l’umanità denuncia il proprio fallimento. Tutti i tentativi di mettere un argine sembrano essere andati a vuoto. È fallita la Società delle Nazioni, sorta dopo la prima guerra mondiale. È fallita l’ONU, nata dopo il secondo conflitto per bandire la guerra e per riunire l’umanità in un unico organismo solidale. Come era prevedibile, per la sua intrinseca assurdità, sembra non reggere neanche la deterrenza nucleare. Una cosa è chiara: non sarà la paura a tenere a bada le nostre bramosie, le bramosie di Caino. Ci vuole un nuovo ordine mondiale.
Il suo principio – il principio, come diceva Paolo VI, di una «nuova sociologia» (Discorso all’ U.C.I.C, 8 giugno 1964) – è nascosto nell’Eucaristia, dove ci ritroviamo tutti miseri e peccatori, cosparsi dall’olio della misericordia, rinfrancati dal pane dei poveri. Dove siamo disarmati dall’amore, dove il cambiamento del cuore si coniuga con il gesto concreto della riconciliazione. L’Eucaristia – «nella quale è tutto: tutta la creazione, tutto l’uomo, tutta la storia, tutta la grazia e la redenzione» (Piccola Regola della Piccola Famiglia dell’Annunziata, 2) -, compresa fino in fondo, dirada l’odio, abbatte i muri, svuota gli arsenali, chiama alla pace. Papa Francesco senza sosta e con audacia evangelica lo annuncia, lo grida: siamo fratelli accomunati da un solo destino, chiamati a stare gli uni ai piedi degli altri, e tutti insieme ai piedi del creato, della nostra madre Terra, da cui proviene l’olio di questo giorno, profumato con la fragranza degli agrumi siciliani e calabresi (della Diocesi di Locri-Gerace) e con il Nardo della Terra Santa.
È l’olio dell’unzione del Messia, «il testimone fedele, il primogenito dei morti. Colui che è, che era e che viene» (Ap 1,5.8). Olio che fluirà sempre, fino a quando la creazione intera conoscerà «nuovi cieli e una terra nuova, nei quali – come afferma l’Apostolo Pietro – avrà stabile dimora la giustizia» (2Pt 3,13). A Lui volgiamoci, sentendo la responsabilità che tocca a ogni cristiano e alle nostre comunità in questa distretta della storia. Una responsabilità che compete in particolare ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, a coloro che presiedono servendo e che per primi devono chinarsi sul grido dei poveri, sul pianto degli afflitti.
Cari fratelli presbiteri, cari diaconi, l’Eucaristia è la fonte genuina di ogni camminare assieme. Di ogni cammino sinodale. Un cammino nel quale ci ritroviamo tutti ‘popolo di Dio’: l’Eucaristia, lo sappiamo, la celebra tutto il popolo di Dio, come Chiesa che incontra nel bacio eucaristico il suo Sposo Risorto. Il presbitero presiede: e cioè deve essere il primo a servire, a spendersi in prima persona per l’unità del genere umano animando la comunione ecclesiale. Nella certezza che l’Unto di Dio, morendo come il chicco di grano (cfr Gv 12,24-25), con il suo sì ha fecondato la storia e ne ha segnato il compimento nel sì del Padre che dona Vita nuova, rigenerata nello Spirito.
Nell’Eucaristia la certezza che il male, anche il più orrendo, non avrà l’ultima parola, non ucciderà il germe di rinascita che ogni vita ha ricevuto dal Padre e ha rinnovato nel Cristo. In Lui e in vista di Lui l’umanità è stata amata, rigenerata. Nel Suo nome, oggi, uniti a Lui, diciamo ai nostri cuori e all’umanità distrutta e impaurita dalla ferocia della guerra: abbiate fede, sperate contro ogni speranza, ancora una volta l’amore vincerà. Vincerà il Suo Amore. Nell’Eucaristia e nella Chiesa.
Preghiamo che il Suo amore celebrato in questo Giovedì Santo vinca anche in noi: noi che siamo stati chiamati a stare con Lui per “dare da magiare alla folla” (cfr Mt 14,16), per ‘trasformare’ ogni deserto e ogni luogo di morte in un giardino di nutrimento, di condivisione, di speranza.