(Di Roberto Puglisi, LiveSicilia 13.09.2024) – Il primo abbraccio è per un papà e una mamma che scontano la morte di un figlio. Gabriele aveva diciotto anni quando chiuse gli occhi per sempre, assistito dall’amore di una bellissima famiglia. Don Corrado, l’arcivescovo di Palermo, monsignor Lorefice, era lì, nel gennaio scorso, poco prima, per la benedizione, al capezzale di un ragazzo colpito dalla malattia. Ieri pomeriggio, nel salone della parrocchia Maria SS. delle Grazie in Roccella, fra Brancaccio e Sperone, la stretta affettuosa con due genitori che non dimenticheranno mai la carezza paterna di un uomo di Chiesa in cammino secondo il registro dei passi più luminosi: quelli di Biagio Conte e Don Pino Puglisi.
Qualcuno tra i presenti commenta ad alta voce: “Trent’anni di lavoro per i giornali e non ho mai visto un arcivescovo così vicino alla gente, che fa queste cose”. L’incontro è nato da una iniziativa del parroco, don Ugo Di Marzo, in calce alle violenze della zona, come l’omicidio di Giancarlo Romano in un contesto attraversato da scommesse e criminalità. “L’arcivescovo si è informato, ha voluto essere tenuto al corrente – dice don Ugo -, averlo qui ci riempie di immensa felicità”. “Sono nel luogo in cui deve stare un vescovo – dice Lorefice –. In mezzo alla gente, tra le comunità. Lì dove manca l’essenziale ci può essere una presenza di condivisione gratuita, ma ci può essere pure un altro tipo di interesse, per creare dipendenze. Il quartiere ha visto violenza e uccisioni per la spartizione del territorio”. “Qui, per sopravvivere si può tagliare la droga nelle case – prosegue – o mandare i bambini a fare i pusher. La presenza delle istituzioni è fondamentale. Dove non arriva lo Stato, arriva la mafia. Dobbiamo avere consapevolezza, altrimenti tutto sarà difficile e questa città rischia di non essere liberata”.
Al termine della riunione con la famiglia e con le istituzioni, Don Corrado comincia la sua processione, da amico, strada per strada. Traffico. Motorini che sfrecciano con una pigiata di clacson che ha l’eco dell’arroganza. Ma, soprattutto, tanti occhi che si illuminano.
Questa Palermo ‘a rischio’ si meraviglia di vedere il suo Pastore laggiù, in quella porzione di purgatorio. Poi comincia a crederci davvero e si stropiccia gli occhi. C’è chi si affaccia dai balconi: “Che bellu u’ vescovo!”.
Ci sono mani che stringono mani. Ci sono confessioni sussurrate a mezza bocca. Ci sono bambini sofferenti abbracciati e altri genitori confortati. Una signora si appoggia all’abito talare. E piange. Vasto è il catalogo, a Roccella e nel mondo. Bruciante è l’arsura di chi non trova risposte al suo dolore. La speranza ha il ticchettio di una pioggia benefica, su cuori inariditi dalla disperazione.
Una porticina anonima si apre e lascia trasparire interni eleganti, arredati con buongusto, fra libri e scaffali che riecheggiano storie familiari. L’arcivescovo Lorefice accetta un bicchiere d’acqua, chiacchiera un po’ e riprende il cammino.
Ci sono ancora lacrime. C’è una carezza che arriva in profondità e nasce da una semplice connessione umana. Talmente semplice che non la attiviamo quasi mai. Questa porzione di Palermo, negli anni, disidratata dal bisogno, abbandonata con le promesse, ingannata con la retorica, si disseta, finalmente, seguendo le orme leggere di un uomo di Chiesa. Lui entra dappertutto, passa ovunque. Dove un ascensore cadde. Dove ci fu un omicidio. La commozione è fortissima.
Vale di per sé. Vale incommensurabilmente di più delle chiacchiere, dei ‘non posso’, della liturgia da braccia allargate. Come vale l’impegno di una comunità che combatte con valore. “Don Ugo si fa in quattro – dice un parrocchiano -, toglie i ragazzini dalla strada, non vuole che succedano cose tinte. Don Ugo è in trincea, in frontiera”.
Un altro racconta: “Non lo vogliamo più il politico di turno che parla di degrado, di periferie. Adesso nni mettemu u’ cravattino e ninniamo a stare tutti a via Libertà“.
E c’è la foto di Gabriele, che ha chiuso gli occhi a diciotto anni. Gabriele ucciso da una malattia, al termine di una notte lunghissima di sofferenza e di coraggio. Gabriele che resta per sempre nella memoria di tutti e non si muove da lì.
C’è Gabriele nel telefonino appoggiato sul palmo della mano di suo padre. Mentre sua madre riceve l’abbraccio del conforto, accanto al sorriso del figlio.
(Roberto Puglisi)
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La speranza e le lacrime nella città abbandonata: “Qui Palermo rischia”