12 luglio 2022 CS --63/22

398° Festino di Santa Rosalia. L’Arcivescovo apre le porte di casa a tutti i Popoli a tutte le Religioni e a tutte le Chiese cristiane

Palermo, città accogliente, solidale nella giustizia e nella pace ++ embargo ore 18.30 ++

Care Amiche, Cari Amici,

arrivo qui come ogni anno con il cuore colmo di gioia e di consolazione. Il rinnovarsi del nostro incontro rappresenta per me un grande motivo di speranza. Ritrovarci qui significa infatti, dal mio punto di vista, porre un segno fondamentale di condivisione e di unità.

Che cosa condividiamo? Direi che in quanto donne e uomini religiosi noi condividiamo la passione per l’umanità e per il suo futuro. Siamo uniti, in ultima analisi, da una tensione tipicamente umana verso l’oltre. Non mi riferisco a un evanescente riferimento al mistero, al metafisico, ma bensì a una intenzionalità profonda che ci spinge a non considerare lo stato delle cose come fisso e immutabile, ad avere una fiducia intima nel movimento, nel processo, nel cammino, in ciò che ci sta davanti e che ci supera. Siamo abitati da un desiderio di ‘ulteriorità’, da una costitutiva tensione al cambiamento. Vogliamo portare un po’ più in là, in direzione dell’autenticamente umano, la nostra vita personale e collettiva. Non siamo fatti per mantenere lo status quo, ma crediamo insieme in un orizzonte raggiungibile, che è sempre davanti a noi, nel quale intravediamo un senso di bene e di felicità. Ognuno di noi modula in maniera diversa questa spinta, la declina a suo modo. Ma sappiamo tutti che il nucleo di ogni religio, l’evento stesso del credere, comunque lo si viva, significa letteralmente ‘dare il cuore’, impegnare pienamente sé stessi, nella fedeltà e nella responsabilità, per un nuovo tempo e un nuovo spazio del mondo.

La religione non è e non deve essere mai l’oppio dei popoli. Non può mai fare l’ancella del potere. Manca al suo stesso essere se lavora perché tutto resti com’è, perché gli squilibri del mondo e i dolori delle donne e degli uomini restino inalterati, immutabili. Lo dico perché il fiancheggiamento del potere, il servizio dei potenti, l’ossequio alle logiche di questo mondo sono stati e sono il rischio e il limite delle confessioni religiose a cui apparteniamo. Troppe volte e troppo a lungo ci siamo trovati dalla parte sbagliata della storia, al fianco dei grandi e non dei piccoli, dei dominatori e non dei poveri, della violenza e non della pace. Ognuno di noi qui, stasera, sa di che cosa stiamo parlando ed è pronto a guardare con occhio critico la propria vicenda mondana.

Le chiese cristiane sono state e sono attraversate dalla tentazione di un modo falso di intendere la religione, come funzione delle «potenze di questo mondo» e non dell’oltre. Inutile ricordare qui le tante fragilità, gli smarrimenti, le collusioni con il potere ingiusto di ogni chiesa e di ogni religione nel corso della storia.  A fronte di tanti testimoni della pace e della giustizia, di tante e tanti credenti coraggiosi, pellegrini dell’oltre – e includo certamente tra questi, ad esempio, anche alcuni padri del buddismo giapponese, come Makiguchi e Toda – abbiamo conosciuto posizioni ufficiali delle gerarchie che ci lasciano perplesse e sembrano colludere con ingiustizie, soprusi e violenza.

Da questo punto di vista, siamo qui insieme stasera come penitenti, come donne e uomini di una storia luminosa ma anche triste, forte ma anche drammatica. Siamo qui a chiedere perdono per le nostre chiese e le nostre comunità religiose per i momenti di connivenza e di stravolgimento del senso stesso dell’agire religioso. Gli atti e le parole contro la verità – e per le Chiese cristiane, gli atti e le parole contrari all’Evangelo – sembrano non cessare. Noi non siamo qui per giudicare, ma per recidere completamente ogni debito con la violenza, per far valere un atteggiamento diverso, un orizzonte di accoglienza e di pace.

Ecco il significato profondo di quel che dicevo prima: condivisione e unità. Rappresentare nazioni, popoli diversi, costumi e usi, lingue e pratiche così diverse, significa stasera per noi porre un segno di unità del genere umano, un segno di unità nella diversità delle donne e degli uomini di questo pianeta. Conosciamo bene la delicatezza del momento. Il mondo pare essere sull’orlo di una nuova contrapposizione fratricida, sul limitare di una nuova, letale divisione in blocchi competitivi, intimamente nemici.

Rischiamo una nuova stagione di contrapposizioni mortali, di guerra permanente, dalla quale il genere umano potrebbe rimanere ferito a morte. È importante levare da qui stasera la nostra voce in favore di un’unità dinamica e feconda di tutti gli uomini e di tutto il creato.

Non c’è futuro per il mondo fuori dall’orizzonte delineato profeticamente da Papa Francesco, Vescovo di Roma e patriarca della Chiesa cattolica: fratelli tutti! Vorrei che puntassimo l’attenzione su questa formula risolutiva. Dire ‘fratelli’ vuol dire percorrere i cammini della comune umanità, affermare con forza l’idea di Francesco d’Assisi di una fratellanza universale che coinvolge il sole, la luna, le stelle, l’acqua e il fuoco ancor prima degli umani. Significa evocare una solidarietà radicale, che aggancia tutte le creature a un unico destino: o ci salviamo assieme o ci arrendiamo alla distruzione progressiva e inesorabile delle condizioni stesse della vita. Siamo qui stasera allora – care Amiche, cari Amici – per dire, direi ancor meglio, per gridare assieme che siamo fratelli, che ci sentiamo partecipi di un’unica avventura, che vibriamo insieme per ogni vita violata, per ogni ferita inferta agli altri fratelli e alla vita.

Senza distinzioni di sorta, senza separazioni in serie A e serie B, in primi e secondi della classe. Mentre applaudiamo a chiunque compia gesti di solidarietà verso chi soffre e muore, deploriamo e condanniamo ogni guerra di ieri e di oggi. Con la medesima franchezza diciamo che non possono continuare i respingimenti, le tortura e gli omicidi più o meno silenziosi di migliaia di persone in fuga dalla fame e dalla guerra – dall’Africa e dall’Asia – lasciati alla porta dell’Occidente come dei reietti, abbandonati alla crudeltà dei lager libici nella più assoluta mancanza di scrupoli, contenuti in paesi terzi con una gelida Realpolitik, lasciati morire sulle soglie dell’Europa con una spietatezza inumana.

Essere fratelli significa esserlo ‘tutti’: senza steccati, senza graduatorie. Non si è fratelli se non si è tutti. Si sarà connazionali correligionari, alleati, compartecipi di blocchi e di assi economici e militari, ma non si sarà mai fratelli. Per questo stasera leviamo qui, da Palermo, la nostra voce e con la presenza comune in questo luogo affermiamo la nostra contrarietà alla politica della potenza e dell’inimicizia, dell’aggressione e dell’invasione. Ma soprattutto diciamo il nostro sì in favore della eleganza delle relazioni, della misericordia verso i sofferenti, dei gesti di vicinanza ad ogni prossimo, delle testimonianze di amore, di quelle realtà profonde che continuano a reggere il mondo a dispetto e al di là delle farneticazioni dei potenti.

In una etimologia molto contestata – ma per noi quanto viva e apprezzabile stasera! – religio significa legame, nesso che raccoglie e che unisce. Care Amiche, cari Amici, schieriamoci stasera insieme dalla parte della religio. Non contro qualcuno, ma per fare esperienza, ancora una volta, del primato di quel che ci unisce rispetto a quel che ci divide. Lanciamo il nostro appello e stendiamo simbolicamente la nostra mano verso ogni chiesa, anche quelle che hanno logiche differenti e ci rendono perplessi, proponendo anelli di congiunzione per ridurre qualunque contrapposizione ancora presente, per evitare ogni segno di falsa religio, di una religio che non lega, non unisce ma divide e rende nemici. Lo dico per primo io – in maniera indegna, consapevole delle mancanze della mia chiesa – ma lo dico come discepolo di un Signore che ha scelto la via della consegna di sé e del rifiuto della violenza per la salvezza e il rinnovamento del mondo. La sua testimonianza resta per tutte le chiese cristiane pietra di scandalo e discrimine inevitabile del loro essere e della loro missione. Se non sono per questo, se non seguono questa logica, le chiese non sono – ovvero non siamo – nulla!

I germi di fraternità collocati nel nostro cuore, nel cuore di ogni religione qui presente e anche delle tante esperienze e comunità religiose che non sono qui stasera, portino frutti di verità, di giustizia e di pace. Noi li invochiamo insieme, nella lingua comune del rispetto e dell’amore, quella che sotto ogni latitudine e in qualunque forma lo si intenda, è la lingua di Dio, la lingua stessa della vita.

Vi ringrazio e vi abbraccio con affetto.