Care sorelle e cari fratelli, gioia e pace nel Signore Gesù.
Il tempo di Avvento che stiamo per iniziare ci ricorda una delle verità più grandi della nostra fede: il Verbo di Dio, che si è fatto carne in Gesù di Nazareth, verrà una seconda volta nella gloria e viene nello Spirito ad inabitare nei nostri cuori e nella storia concreta delle nostre esistenze. L’incarnazione di Dio non è così oggetto solo di una memoria attenta e devota di ogni credente in Cristo, ma chiede un compimento nella parusia, cioè la seconda venuta di Gesù Cristo nella gloria, e un’attenzione costante nella nostra vita di fede sia a livello personale sia a livello comunitario.
Quest’anno voglio meditare con voi sul senso dell’incarnazione del Verbo di Dio.
Si tratta di una delle verità fondamentali della nostra fede cristiana. Dio, che si era già rivelato attraverso “eventi e parole intimamente connessi tra loro” (DV 2), nei tempi finalmente ultimi, perché riempiti dalla sua pienezza, “mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli. E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: «Abbà! Padre!»” (Gal. 4, 4-6). La pienezza dei tempi non è così il frutto di un cammino più o meno evolutivo dell’uomo che si rende così capace di accogliere addirittura un Dio che si fa uomo, ma è piuttosto il risultato dell’amore di Dio che vuole parlare agli uomini come ad amici per donare loro la sua comunione trinitaria (cf. Gv. 15,14-15; DV 2). E questo avviene per mezzo dell’incarnazione e non per un puro movimento spirituale, seppur originato da Dio stesso. È allora la carne, la carne intrisa di debolezza (questo è il significato del termine greco sarx usato dal NT) ad esclusione del peccato, quella unica carne di Gesù di Nazareth, che diventa il luogo della rivelazione piena di Dio e del nostro incontro amicale con Lui.
La storia di Gesù, già a partire dal modo in cui è avvenuta la sua nascita fino alla sua morte in croce e alle sue apparizioni di risorto dai morti, è rivelazione piena di Dio. E questo non è cosa da poco, mie care sorelle e miei cari fratelli. È come se dicessimo, infatti, che solo nella storia di un uomo, di Gesù di Nazareth unico salvatore del mondo, poteva avvenire la completa narrazione che Dio fa di se stesso. Non bastavano quindi la creazione, la rivelazione ai patriarchi e a Mosè, il dono della Legge, le scritture profetiche e gli scritti sapienziali. Occorreva la storia di Gesù di Nazareth – dei suoi gesti, delle sue scelte, delle sue posture, dei suoi gesti di tenerezza e dei suoi rimproveri, delle sue parole autorevoli e dei suoi dialoghi interpersonali, dei suoi miracoli, dei suoi silenzi, della sua capacità di gestire la sofferenza e il dolore, della sua preghiera intima in cui ricerca la volontà di suo Padre e vi si affida – perché ogni uomo potesse cogliere in questa storia ciò che Dio vuole raccontare di se stesso e del Suo profondo desiderio d’incontrarlo. Sì, perché Dio coltiva da sempre, dentro la sua esistenza trinitaria, l’intimo desiderio di poter incontrare ogni uomo e ogni donna. E neanche la diffidenza e il peccato dell’uomo lo allontanano da questo proposito di amicizia e di comunione. Prima che ogni uomo si metta alla sua ricerca, Dio lo cerca con infinita dedizione, con amore ricolmo di misericordia, pensandolo fin da prima che egli nasca. Il Dio che viene nella carne di Gesù di Nazareth, il Dio che verrà nella gloria del suo Figlio, è lo stesso Dio che viene così incontro ad ogni uomo da pensarlo ed amarlo prima ancora che possa emettere i suoi primi vagiti. Prima degli abbracci e dei baci del proprio papà e della propria mamma, ogni bambino che viene al mondo è già generato ed accolto dal sorriso benevolente di Dio. È allora il grande mistero della tenerezza di Dio che sorregge tutto quanto il mondo.
Gesù è ancora il luogo dell’incontro amicale tra Dio e tutti gli uomini: è l’Amen di Dio agli uomini e l’Amen degli uomini a Dio. La nuova ed eterna alleanza, poi suggellata nel mistero pasquale, ha già il suo motivo d’essere in questa unione tra Dio e uomo, che si realizza come unione personale fin dalla nascita di Gesù Cristo. Egli, la sua carne, è così il luogo relazionale in cui, in maniera assolutamente singolare e nel contempo universale, Dio incontra l’uomo. La storia concreta di Gesù non è soltanto la manifestazione della pienezza della rivelazione di Dio e del suo desiderio di amicizia con ogni uomo e con ogni donna, ma è anche la rivelazione di cosa significhi stare con Dio, essere figlio e figlia di Dio. Possiamo allora condividere lo stupore dell’autore della Prima Lettera di Giovanni, quando esclama: “Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!” (1Gv. 3,1). In Gesù impariamo così il senso della intimità e dei retti comportamenti della figliolanza divina, già a partire dalla nostra amorosa contemplazione del Verbo di Dio che si fa carne nel neonato Gesù.
Come già vi dicevo in occasione della mia omelia per il mio primo Natale con voi, “è veramente Dio stesso, il Signore, creatore di tutte le cose, che si fa bambino, piccolo, che viene nel nascondimento della comune carne e vicenda umana, senza clamore, che rende credibile il suo santo Nome, Emmanuele, Colui che ama stare in mezzo a noi nella debolezza e nell’abbassamento. Il pensiero e le vie di Dio sono veramente altre: la piccolezza, la sobrietà, la mitezza, la pace” (Omelia del giorno di Natale, 25 dicembre 2015).
La carne di Gesù, quella che iniziamo a contemplare fin dal mistero del Natale, ci conduce ai poveri. Già a partire dal mistero di Gesù, per il quale non è casuale nascere povero. “Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2Cor. 8,9). La sua non è allora una povertà sociale, ma è la povertà dell’abbassamento, della kenosi, del Verbo di Dio che “non ritenne un privilegio l’essere come Dio ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini” (Fil. 2, 6-7). Alla luce di ciò comprendiamo bene come per la Chiesa, così come ci ricorda Papa Francesco, non si tratta solo – e questo è un dovere imprescindibile – di operare secondo giustizia a favore dei poveri, ma di farsi essa stessa povera. Questo necessario processo di rendersi povera, che ci è raccomandato in particolare dal documento del Concilio Vaticano II che ci parla della Chiesa (cfr. Lumen Gentium, 8,3), non implica soltanto, da parte della stessa Chiesa, il dovere di non essere ricca, ma soprattutto di prendere le distanze da logiche di potere. In nome di Cristo e per raggiungere così la conformazione a Cristo.
Il Natale è così una delle grandi celebrazioni cristiane che ci ricorda la profondità spirituale della carne di Cristo. Dio ama la nostra storia tanto da condividerla nella pienezza umana dell’incarnazione del Verbo e nella povertà di Gesù di Nazareth ci rivela lo stile autentico della nostra figliolanza, vero dono dello Spirito.