I Chiaroscuri – Il riitorno di Silvia Romano in un’Italia divisa

La solita rissa verbale
Il ritorno di Silvia Romano in Italia e le sue implicazioni hanno dato la stura a una tempesta mediatica che, come accade sempre in questi casi, non sembra aver giovato a una valutazione serena dei fatti. Stiamo avendo ancora una prova della difficoltà degli italiani, in questa lunga e faticosa stagione della loro storia, nel gestire un dibattito serio su avvenimenti di rilevanza pubblica, facendone occasione di confronto e di arricchimento reciproco, invece che di sguaiata rissa verbale. Nel tentativo di realizzare un approccio diverso, mi propongo, in questa riflessione – non a caso intitolata “chiaroscuro” –, di ricostruire la vicenda mettendone in evidenza luci e ombre.

All’inizio di tutto, la solidarietà
Partiamo dai fatti. Quello che è sicuro è che Silvia Romano, 24 anni, invece di farsi “i fatti suoi” cercando una sistemazione vantaggiosa in patria, ha scelto di andare in Africa ad aiutare i bambini, come cooperante della onlus «Africa Milele». Là è stata rapita, il 20 novembre del 2018 in Kenya, nel villaggio di Chakama e tenuta prigioniera in Somalia da uomini vicini al gruppo jihadista Al-Shabaab, una potente organizzazione fondamentalista somala affiliata ad Al Qaeda.
C’è chi, fin dall’inizio, ha commentato il rapimento di Silvia con un maligno «se l’è andata a cercare», e ora schiuma di rabbia per i (presunti) soldi sprecati del riscatto, «sottratti agli italiani». Non stupisce che in una logica dominata dal primato dell’utile individuale risulti incomprensibile un gesto gratuito di solidarietà. Ma ai critici si potrebbe far notare che anche i medici e gli infermieri volontari che hanno curato i malati di coronavirus «se la sono andata a cercare». E che se qualcosa di bello e di buono possiamo anche oggi registrare, nella tragica pandemia che ci ha colpito, sono gli esempi di umanità che abbiamo con gratitudine registrato in persone che hanno agito come Silvia Romano.

Ombre
È vero, però, che, per quanto riguarda in particolare «Africa Milele», essa viene accusata di non avere applicato i protocolli di sicurezza del nostro ministero degli Esteri e – secondo poche frasi dei genitori di Silvia – di aver mandato la figlia «allo sbaraglio» in una zona ad alto rischio, senza le necessarie cautele. Accuse da verificare, naturalmente, e che la responsabile della onlus respinge. Dove comunque non è in questione il valore dell’impegno umanitario, ma il rispetto o meno della saggezza che deve sempre accompagnarlo.

Il nodo del riscatto
Sulle circostanze della “liberazione” (le virgolette sono d’obbligo, perché sembrerebbe piuttosto essersi trattato di un rilascio) c’è ancora poca chiarezza. Siamo davanti a uno scenario in cui è difficile distinguere la realtà dalle apparenze, anche perché è in gioco l’abile strategia propagandistica del terrorismo islamico. Emblematico il nodo non sciolto del pagamento o meno del riscatto, di cui qualche nostro giornale ha perfino indicato l’ammontare – quattro milioni di euro – e che Al-Shabaab, nell’ottica appunto della propaganda, conferma di voler usare per la sua “guerra santa”, ma di cui il ministro degli Esteri Di Maio esclude l’esistenza.

Il colpo di scena
Ma torniamo sul solido terreno dei fatti. È un fatto la solenne accoglienza, all’aeroporto di Ciampino, da parte del presidente del Consiglio e del ministro degli Esteri, come lo è che, nel momento stesso in cui la ragazza è scesa dall’aereo, si è capito che la sua identità non corrispondeva a quella che ci si aspettava. Eloquente il titolo indignato di un quotidiano: «Abbiamo liberato un’islamica». Sì, come il suo abbigliamento ha subito lasciato intuire ed ella stessa ha poi dichiarato, Silvia si è convertita all’islam e ha perfino cambiato nome: Aisha.
Cambiamento repentino del clima. All’entusiastico e commosso abbraccio di folla si è passati nel giro di poche ore a un’ondata di insulti e di minacce che hanno perfino indotto la magistratura ad aprire un’indagine.

Un boomerang mediatico
Se dal piano dei fatti passiamo a quello delle considerazioni, le prime da fare riguardano il comportamento del governo, dal quale il ritorno di Silvia è stato annunciato e gestito come un trionfo della diplomazia italiana e, al tempo stesso, un’occasione di ricompattare l’opinione pubblica di un Paese diviso dalle tensioni sociali ed economiche creato dal coronavirus.
In realtà, è convinzione diffusa degli osservatori che l’enfasi mediatica posta sulla vicenda abbia avuto come principale beneficiario proprio Al-Shabaab. L’immagine, trasmessa da tutte le televisioni, di una giovane sorridente che i suoi rapitori hanno rispettato e che alla fine ha aderito, senza costrizione, alla loro fede, è risultata un perfetto spot pubblicitario della superiorità dell’Islam.
Ora, non è possibile che Conte e Di Maio non fossero stati informati del cambiamento di Silvia. Forse, se avessero riflettuto, avrebbero capito che la vicenda andava gestita con molta più cautela. Invece quello che poteva essere un successo si è trasformato in un boomerang.

Un linciaggio
Così, invece di unire il Paese dietro il governo, il ritorno di Silvia Romano ha dato armi all’opposizione per deplorare – giustamente – le modalità dell’accoglienza e per scatenare – molto meno giustamente – contro Silvia, la solita vergognosa campagna mediatica di odio e di volgarità, di cui i suoi bersagli hanno in passato fato ampia esperienza.
Fino all’inaccettabile espressione con cui un deputato della Lega ha bollato in Parlamento – avallando il linciaggio in corso (anche se poi scusandosi) –, quando ha definito la ragazza «una neo-terrorista».

Guerra di religione
Peraltro senza neppure essere censurato dal suo leader politico, che si è limitato a sviare il discorso, precisando che a suo avviso bisogna «lasciare stare Silvia» per concentrarci sulla lotta «al vero nemico, al vero pericolo per i nostri figli, per l’Italia e per il mondo: l’Islam fanatico, integralista, violento, assassino».
È la guerra di religione a cui la Lega è dedita fin dalla sua fondazione e che cerca sistematicamente di identificare chi è islamico come “il nemico”, senza distinguere – come bisognerebbe fare sempre, anche quando si parla dei cristiani – tra i fanatici intolleranti (tra cui sicuramente i membri di Al-Shabaab) e le persone ragionevoli, come ad esempio il Grande Imam di Al-Azhar, che il 5 febbraio 2019 ha firmato con papa Francesco un documento dove si consacra il reciproco rispetto delle due grandi religioni.

Una piccola luce
Tra gli islamici che non sembrano «fanatici, integralisti, violenti, assassini» c’è, peraltro, la stessa Silvia Romano che – pur sommersa dalla valanga delle contumelie e di minacce –, sul suo profilo Facebook, visibile solo ai suoi amici, ha scritto: «Vi chiedo di non arrabbiarvi per difendermi, il peggio per me è passato» e ha solo parole di ringraziamento per tutti coloro che hanno sostenuto moralmente lei e la sua famiglia. È una piccola luce, ma ci basta.
Fa pena, però, pensare che, dopo diciotto mesi trascorsi a sognare di tornare in Italia, tra i suoi connazionali, questa ragazza stia sperimentando che, oltre alla violenza terroristica dei fanatici che l’hanno tenuta prigioniera in nome del (presunto) islam, ce n’è una, corrispondente, di quelli che oggi la insultano in nome del (presunto) cristianesimo. Ma forse ormai è in grado di distinguere la bellezza della fede in una religione e la brutale stupidità del fondamentalismo che invoca quella fede per attaccare e maledire chi non la condivide.

Il problema non sono (solo) i governi, ma l’anima
Sta di fatto che, in un Paese dove si parla spesso, di questi tempi, di un governo di unità nazionale, l’unità vera, profonda, sia resa problematica da una frattura trasversale, che non è tra credenti e non credenti, e neppure tra ideologie di destra e di sinistra, ma tra persone che riflettono sulle cose e che sono disposte a un dialogo rispettoso con chi è diverso e persone che non sono capaci di questo.
Il problema non è (solo) un governo o l’altro. Di quello attuale tutti vediamo i gravissimi limiti, ma se non si lavora al superamento di quella frattura culturale e spirituale, nessuna soluzione meramente politica potrà riunificare il Paese. La vicenda del ritorno a casa di Silvia Romano, che doveva essere un’occasione per riscoprirci tutti italiani, è eloquente. Dobbiamo cambiare qualcosa che ha a che fare con l’anima. E non aspettare che siano gli altri a farlo, ma cominciare da noi – perché l’anima che deve cambiare è innanzi tutto la nostra.