Un dolore inconsolabile. Un urlo che arriva fino al Cielo. La morte di un figlio, di un fratello, di un familiare, di un amico. È assurdo che un figlio venga rubato ai genitori, alle sorelle, ai fratelli, agli amici. Alla sua attività lavorativa. Alla comunità cittadina.
Ecco, siamo qui, raccolti e chiamati da Paolo. Chiamati da questo nostro caro giovane che è stato ucciso. Chiamati dai figli di Rachele, chiamati da Abele, da tutti gli uccisi dalla violenza omicida. E non abbiamo parole. Perché di fronte al dolore abissale e inspiegabile, le parole non sono nulla.
Gli amici di Giobbe – come si legge nella Bibbia – che provano a giustificare la catena di disgrazie cadute addosso al loro povero compagno, mettono in scena una parodia della giustizia, una inutile difesa di Dio, di fronte alla quale Giobbe ricorda loro il rispetto che si deve al dolente: «A chi è sfinito è dovuta pietà dagli amici, anche se ha abbandonato il timore di Dio» (Gb 6,14). E questo rispetto è fatto di prossimità e di silenzio. Siamo vicini. Sgomenti. E nel silenzio proviamo a comprendere una goccia dello strazio di voi genitori, parenti, amici, della Città tutta.
La nostra memoria di credenti, la nostra stessa esistenza, è legata a un altro innocente, ucciso su una Croce. Un uomo che come Paolo è morto giovane. Un uomo che amava la vita, l’amicizia, i banchetti, la strada. Uno che ha sentito e guardato la vita con gli occhi di Dio e ci ha raccontato che Dio è nel povero, nell’indigente, nell’innocente violato e ucciso. Che Dio, in Lui, è per sempre sulla croce, a rivelare l’ingiustizia e la follia dei carnefici sulle vittime. A dirci che la vita di una sola donna, di un solo uomo vale l’infinito e non può essere sacrificata da chi ritiene che i morti siano danni collaterali e che uno in più, uno in meno, non fa differenza: disumana follia dei violenti e dei potenti per i quali verrà il giudizio di Dio.
Nessuna parola in più. Solo uno sguardo a Paolo e uno sguardo alla Croce. Carissima mamma Fabiola e papà Giuseppe, carissima Sofia, carissimo Mattia, carissima Desirée: non so se posso dirvi altro. Piango e con voi rivolgo al Signore la domanda terribile che urla nei vostri cuori: perché?
Lo so. Anche Rachele non vuole essere consolata. Non ci sono parole che consolano. C’è un urlare assieme al Cielo. E alzando lo sguardo al Cielo incontriamo lo sguardo di Cristo in croce. Ai suoi piedi, una madre, gli amici, i vicini. E dopo aver guardato il volto di Cristo Crocifisso e di sua Madre, torniamo a guardare Paolo, a guardare voi che siete i suoi genitori, i suoi parenti, voi che siete i suoi amici. Ecco, nella disperazione, nell’urlo levato verso il cielo, c’è un filo di luce. Viene dallo sguardo di Gesù e di sua Madre Maria. Loro sono con voi. E dalla Croce e da Maria viene una parola. È lei a dirvi: «Sono con voi. Con voi mamma Fabiola e papà Giuseppe, con voi carissimi Sofia e Mattia, con voi suoi parenti e suoi amici. Sono con voi per dirvi che Paolo non è scomparso, non è finito nel nulla. Certo, pur invisibile, egli continua a vivere in modo cocente e straziato nei vostri cuori, ma sappiate che egli vive anche nel cuore di Cristo. A mio Figlio sulla croce hanno aperto il costato. Ho pianto disperatamente quando me l’hanno riconsegnato ferito e piagato, con il segno della lancia vicino al cuore. Solo dopo ho capito che Lui era stato trafitto perché potessero entrare nel suo corpo, nella sua carne, nel suo cuore i morti, e per primi tutti gli uccisi da una mano violenta». Così parla Maria accanto alla croce. Così parla per voi. Per noi. Noi uomini scappiamo, abbandoniamo. La croce di Cristo è generativa perché è il segno di un amore più grande. In Gv 16,21 si legge: «La donna quando partorisce è nella sofferenza perché è venuta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo». Quello di Cristo sulla croce non è il rantolo di un morente ma il grido di una partoriente. A dispetto della morte l’amore del Crocifisso risorto ci rigenera alla vita. Annienta la stupidità dell’odio e della violenza!
Sì la violenza sembra – lo diciamo con tristezza – [sembra] inestirpabile. Passano i secoli, Dio ci parla, si mostra in forma di uomo, muore in croce, annientato dalla violenza. E perdona. Ma si continua ad uccidere. Nessuna motivazione rende legittima l’uccisione di un uomo. E piangendo per Paolo piangiamo per tutti i morti, uccisi dalle guerre, dalla mafia, dalla violenza, dal narcisismo delirante, dal culto della forza virile. È il sangue di Abele che scorre. È il grido, che continua a risuonare: Non uccidete Abele! Perché Abele, figura del Cristo, è l’innocente, ucciso prima di ogni gesto e di ogni consapevolezza. È colui che non ha parole, il bambino piccolo sul quale ricade una violenza immotivata, di cui mai conoscerà pensieri e presupposti. Nella morte di Abele c’è l’istantaneità crudele di milioni di vite spazzate vie come fuscelli, di esistenze saltate in aria come detriti della storia, che nessuno guarda e rispetto ai quali altro non si fa che andare avanti. Stamattina Paolo viene annoverato nella stirpe di Abele, nel popolo immenso dei buoni, degli innocenti, dei pacifici, che hanno offerto la loro esistenza per rispettare il senso ultimo della vita, quello di un essere originario, senza violenza e senza sopruso. Siamo fatti per la gioia della convivialità.
Per questo, uccidere il fratello è il principio della guerra, della divisione mortifera. Ma la Parola di Dio continua a ripetere anche: «Non uccidete Caino!» (cfr Gn 4,15).
La giustizia deve fare il proprio corso, in quanto la realtà dei fatti va appurata, rispettata e chiamata per nome. Ma scacciamo dal nostro cuore la voglia di uccidere Caino. La cattiveria e la violenza non giustificano nessuna risposta altrettanto violenta. Vale per la nostra Palermo e vale per la Casa Comune, la Terra sulla quale dobbiamo vivere sempre come ospiti e mai come proprietari. Il riscatto non verrà da altra violenza, ma dal levarsi del desiderio di pace e di giustizia nella vita e nel cuore dei Palermitani.
Figlie, Figli miei amatissimi, Amici, Amiche: non sono gli eserciti, non sono le forze di polizia, col loro pur encomiabile servizio, a cui siamo gratissimi, che potranno estirpare la violenza omicida. Possiamo essere solo noi, insieme. Può essere solo Palermo tutta a mettere fine alla spirale della violenza, attingendo alle sue energie interiori, alla sua storia, alla sua umanità. Come scrivevamo con il carissimo Arcivescovo di Monreale, mons. Gualtiero Isacchi: «Non si tratta solamente di presidiare e mettere a soqquadro i quartieri a rischio o i luoghi della movida, bensì di essere presenti tutti e insieme, a cominciare dalle Istituzioni civili, militari, scolastiche, religiose, con una ‘politica’ della cura dei cittadini più fragili. Fragili per mancata equa destinazione di beni (lavoro, casa, pane), per accesso alla cultura, per opportunità occupazionali e di crescita umana e spirituale. Essere presenti nelle vicende lieti e tristi che si vivono nelle case, nelle strade, nei quartieri. Abbiamo bisogno di rivedere le nostre politiche sociali, urbanistiche, di sviluppo culturale ed economico. Le nostre scelte religiose che tradiscono Dio e il suo sogno se restano prigioniere dei luoghi di culto e delle sacrestie».
Ecco allora il senso del nostro essere qui oggi, a celebrare l’Eucaristia con Paolo. Con voi suoi cari congiunti. Prima di tutto il silenzio. Di fronte allo stermino del dolore. Di fronte allo sterminio provocato dalla violenza. E poi lo sguardo. Per chi volge lo sguardo da Paolo, da tutti gli uccisi dalle armi, dalle bombe, da governatori crudeli (Erode non muore mai), verso Gesù sulla croce, nella notte più buia comincia ad accendersi una fiammella, una piccola luce: Paolo risorgerà, erediterà la vita e la comunione eterna. Tutti i morti, tutte le vittime rimangono vive nel cuore di Dio e nel cuore di coloro che hanno amato ed amano. In questo filo di luce, noi speriamo che tutta l’umanità possa ascoltare la domanda di Dio: «Dov’è tuo fratello?» (cfr Gn 4,9). E che ascoltandola possiamo esser capaci di piangere di dolore, sollevarci all’altezza dello sguardo e di diventare custodi delle nostre sorelle e dei nostri fratelli.
“Sii custode di tuo fratello!”. Non lasciamo che a vincere sia il demone della violenza. Il suo frutto avvelenato è morte che si espande. Basta violenza. Basta uccisioni. La morte, se non è ospitata da un grembo di accoglienza e di perdono, genera altra morte. Perché solo l’amore dà senso alla vita. E solo l’amore di Dio, e dei suoi genitori, continua a dare vita a Paolo.
Torniamo a educare, a coinvolgerci, a costruire relazioni, a impiegare energie per ritrovare un senso comunitario della vita. A visioni di governo delle Città – di questa nostra tormentata città di Palermo – nel segno dell’umanità e con uno sguardo dal basso: serviamo la vita. Ogni vita è sacra, ogni volto è il centro della Città, destinatario di attenzione e cura.
Speriamo con tutte le nostre forze che il dolore per il male operato e il pentimento convertano e facciano rinascere tutti gli operatori di violenza nella Città e nella Casa comune, ferita da un insensato sfruttamento delle risorse, da conflitti e guerre. Lo chiederemo celebrando la morte e la resurrezione di Cristo Crocifisso, facendo memoria della sua Pasqua, e offrendo a lui il corpo di Paolo che è tra le braccia delle persone amate ma – lo crediamo fermamente – anche nelle braccia del Padre Celeste che lo accoglie, del Figlio morto in croce che lo abbraccia, dello Spirito Santo che consola e dona il perdono.
Io, cari Giuseppe, Fabiola, Sofia e Mattia, a nome di tutta la Chiesa di Palermo, rimango in preghiera e vi avvolgo nel mio paterno e fraterno abbraccio.