Il Cantico dei cantici, canto dell’amore tutto umano, si offre a noi come un’immagine vera ed eloquente dell’amore di Dio che si dischiude all’amore degli uomini, che desidera il nostro amore. Il testo biblico, mettendoci dinnanzi e cantando l’amore umano, rivela che l’amore di Dio per noi è reale. Ma questo amore, pur essendo assolutamente vero e concreto, è anche sorprendentemente “diverso”. Si coinvolge. Conosce la vampa della “passione” (cfr Ct 8, 6), ma è disposto anche a “patire”.
Dio ci chiama ad un amore non astratto, ma più grande, “smodato” (sine modo). Infinitamente più grande. Un amore “sublimato” (sub – limen). Non nel senso di “annullato”, ma nel senso che emerge oltre il limite dell’occhio. Che sconfina. Sconfinato. Fino a morire per l’altro, per l’altra, per tutti.
Paolo di Tarso ha avuto un’esperienza diretta di questo amore. Perciò augura agli Efesini: «Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza» (Ef 3, 17-19).
Leggendo i versi del Cantico, siamo rimandati ad un celebre testo di Isaia, un testo anch’esso nato da un’ardente attesa. È il grido di felicità degli ebrei confinati a Babilonia che finalmente vengono a sapere che il tempo dell’esilio – tempo della lontananza da Dio e del “nascondimento” di Dio – si avvia a compiersi, che Dio interviene e il ritorno è ormai prossimo: «Come sono belli i piedi del messaggero di annunzi gioiosi, che annunzia la pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza, che dice a Sion: “Il tuo Dio regna!”. Senti? Le sentinelle alzano la voce, insieme gridano di gioia» (Is 52, 7-8).
È un appello anche a noi, a “venire via” dal nostro mondo sovente così chiuso, ad alzarci, a far esplodere la vita e l’amore. Ad alzarci dai nostri esili mentali, a venir fuori dagli angusti confini di patrie paradisiache proiettate per rinchiuderci in false sicurezze, precludendoci così la feconda bellezza del ‘rischio dell’altro’. È l’amore che fa rinascere il mondo, l’amore “trasforma” le stagioni rigide e crepuscolari della storia ed accende stagioni assolutamente nuove e diverse! «Alzati, amica mia, mia bella, e vieni! Perché, ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato» (Ct 2,10). L’odio separa, allontana, elimina, distrugge, aggredisce, annega l’altro nell’indifferenza, lo fa entrare in un persistente declino invernale.
Rosalia è mossa dall’amore “concreto e altro” di Dio. È l’amore che la fa uscire dagli alienanti agi e dagli instabili poteri dei palazzi per andare incontro alla “sublimazione dell’amore”, all’amore sublimato. Rosalia accoglie l’invito dell’Amato ad uscire dalla prigionia mentale e culturale dove, inconsapevolmente, correva il rischio di rimanere imprigionata; a non farsi prendere dalla peste che ammorba il cuore, dal contagio devastante dell’indifferenza e dell’insensibilità che pietrifica la coscienza e obnubila la mente.
L’unione con Dio, l’amore per Dio – che può giungere fino al ritiro dell’eremo, come ritenne di fare Santa Rosalia – non è una fuga mundi per pochi eletti, ma strada sicura per essere “efficaci ed incisivi” nel mondo.
È l’amore di Dio alimentato dal silenzio, dall’ascolto orante della Bibbia e dall’intercettazione del gemito che sale dalla Città, che la farà alzare, per ricercare il bene, un di più di bene, il Sommo Bene, volerlo e mediarlo per gli altri, persino anche dopo la sua sepoltura, dopo secoli dalla sua morte, allorché scenderà a valle tra i suoi concittadini, per le strade pestilenti della città, per essere ancora “corpo che intercede” per la guarigione e la salvezza di tutti. Di tutti! La peste che infuriava a Palermo nel 1625 colpiva tutti, buoni e cattivi, santi e peccatori, uomini e donne, piccoli e grandi, cristiani e non cristiani, palermitani e forestieri.
L’amore per Dio e per gli altri, – nella sua misura massima apparsa nel crocifisso del Golgota che spinge il dono di sé fino alla consegna del suo corpo sulla croce – l’amore che irrompe in quanti accolgono il l Regno di Dio (cfr Mt 25, 1-13), è l’olio necessario per alimentare il senso più vero della vita, del nostro essere su questa casa comune che è la terra, dentro questa nostra città così bisognosa di essere trasfigurata nelle sue vie, nei suoi quartieri, nelle sue case, nelle sue montagne e nelle sue spiagge, nei volti di quanti la abitano, nelle relazioni, nelle famiglie, nelle scelte politiche e amministrative, nelle chiese, nelle appartenenze religiose, nelle sedi della burocrazia e nelle strutture sanitarie, nei luoghi dello sport e del tempo libero.
L’amore, che ha bisogno di essere contenuto nel vaso della bellezza e della gentilezza, della cordialità e della semplicità, dell’umiltà e della gioia, della speranza e della mitezza, della misericordia e del perdono, della purezza del cuore e della mente.
Santa Rosalia custodisci in noi l’amore, inonda di amore la nostra città perché rifulga di bellezza per quanti la abitano, per quanti la scelgono, per quanti la visitano!