Care Sorelle, Cari Fratelli,
è un grande onore per me accogliervi qui stamattina, ancora una volta. Avverto in questo nostro appuntamento, ormai, un senso di nascente consuetudine, di prossimità familiare.
Non un evento eccezionale, il nostro, ma bensì un ritrovarsi che ha il profilo di ciò che è normale, che è nell’ordine delle cose, che ha i contorni del quotidiano. Dico «quotidiano» non a caso, perché vogliamo tutti sottrarre il nostro incontro ai paludamenti della retorica. Il riferimento al “quotidiano” sta ad indicare che intendiamo incontrarci per quel che siamo davvero, nella nostra esistenza comune, lì dove, nel flusso dei giorni, veniamo messi alla prova e riveliamo noi stessi nella verità.
E se il tempo è il quotidiano, lo spazio è la casa. I giorni conoscono i picchi dei grandi luoghi, delle piazze e dei palazzi, ma la loro consistenza ultima è domestica. Viviamo il quotidiano nello spazio di una casa, che ci consente l’immediatezza, che ci invita alla nudità. La casa ci precede, perché la casa non è un possesso ma un dono. Riceviamo la casa quando nasciamo, ce la troviamo prima di ogni scelta. La casa non è una proprietà ma un bene per sua natura da condividere. In una casa si entra quando si è stanchi; ad una casa ci si rivolge quando ci si trova nel dolore, nella prova; in casa si fa festa, nei momenti di gioia, nelle ricorrenze (e tutti sappiamo bene quale sapore diverso, quale gusto inimitabile abbia la festa fatta in casa); ci vuole sempre una casa per morire con dignità.
Ma non solo. Per quel che mi riguarda, essere il vescovo di Palermo – della Chiesa di S. Rosalia e del Beato Giuseppe Puglisi – vuol dire prima di ogni cosa essere un discepolo di Gesù di Nazareth, credere in colui che ci ha mostrato il volto accogliente di Dio, il suo essere pura apertura all’altro, senza discriminazioni e senza barriere; un Dio, quello che si è rivelato in Gesù, che non teme la distanza, non ha paura nemmeno del peccato o del rifiuto, poiché non può non accogliere, non può cioè rinnegare se stesso. Ai cristiani non è dato di avere una casa come un tesoro geloso. La casa dei cristiani deve essere la casa di tutti. Voi siete padroni di casa e ospiti con me, in questo spazio che mi è stato donato. Vi giunga il mio abbraccio affettuoso.
Sì, un abbraccio qui, oggi, in un tempo come il nostro, in cui molti vorrebbero fare delle religioni un vessillo identitario, separando le donne e gli uomini in base alla loro fede, al loro credo. C’è una tensione fortissima e diffusa a trasformare l’esperienza religiosa in un modo per distinguersi e per contraddirsi a vicenda. Come se la religione potesse essere la bandiera che un popolo sventola contro un altro popolo, il segno di una diversità irrimediabile. Certo, nessuno di noi vuole negare e nessuno si scandalizza della valenza culturale del fatto religioso, che entra nelle pieghe di una comunità e arriva a plasmare la vita familiare, sociale, gli usi e i costumi di civiltà variegate. Noi non abbiamo paura di essere diversi. Noi temiamo e contrastiamo con forza tutti coloro che vogliono rendere la diversità un ostacolo insormontabile all’incontro.
Care Sorelle, Cari Fratelli, questa è una forma di miopia grandissima. Perché la bellezza di ogni incontro consiste proprio nella diversità dell’altro: io mi nutro della tua presenza in quanto essa mi dà e mi comunica qualcosa che io non ho e non sono. Il contatto è un’avventura esaltante quando rappresenta la scoperta e il confronto con il diverso da me. La differenza arricchisce, l’omologazione e la chiusura impoveriscono, inaridiscono e uccidono.
Permettetemi per questo stamattina di gridare insieme a voi che i progetti di divisione sono il frutto di una mentalità bacata e distorta – noi la chiamiamo ‘tentazione demoniaca’ –, che pensa di poter usare la religione come uno strumento di forza e di morte. Sappiano questi Signori della Divisione – si trovino dentro o fuori dalle Chiese, dentro o fuori dalle Moschee, dentro o fuori dalle Sinagoghe, dentro o fuori da ogni luogo di culto – che essere religiosi significa mettere la propria vita nelle mani di un Altro, comunque lo si voglia concepire: una persona, una parola, un oltre; e che dunque essere religiosi vuol dire sentirsi poveri, bisognosi, aperti e non chiusi, umili e non tronfi e orgogliosi come dei Narcisi! Vuol dire essere com-pagni (cum, “insieme con” e panis, “pane”: «colui che mangia il pane con un altro») e non individui isolati. Sappiano tutti costoro – e noi ce lo ripetiamo quest’oggi – che essere religiosi significa essere amici della vita, perché la religione, quando non viene distorta e dunque tradita, è, in modi e con linguaggi diversi, un inno alla bellezza del mondo, una tensione verso un compimento, l’espressione di un desiderio di pienezza. Non si possono alzare muri in nome della religione! Con la religione non si possono fare guerre! Nessuno può essere ucciso in nome di Dio e nessuno può pensare di uccidere facendosi scudo di un Credo, perché la fede deve essere sorgente della pace sotto ogni cielo!
Ecco il motivo per cui oggi noi siamo qui, a condividere questo momento. Per dire sì all’altro, per dirci di sì l’un l’altro, per levare un canto all’umanità e alla vita. Ma non può trattarsi di un principio astratto. Se leviamo il canto – come abbiamo fatto all’inizio –, siamo chiamati al contempo a levare la nostra voce in difesa di tutti coloro a cui il canto è sottratto, per i quali la bellezza è distrutta, e la cui vita è sfregiata. E non è un caso che sia Palermo ad ospitarci quest’oggi. Palermo è infatti l’opposto di ogni muro, la sua assoluta negazione. Palermo è un porto a cui si può approdare. La Palermo di Rosalia, liberata dalla peste dell’insensibilità e della paura. I tanti fratelli che dal Sud del mondo affrontano pericoli inenarrabili per giungere sulle coste della Sicilia rappresentano per noi oggi l’appello all’accoglienza della diversità che abbiamo appena evocato. E Palermo è il segno vivente dell’ascolto di questo appello, perché Palermo non si risparmia e non si è risparmiata, facendo diventare cittadini, prima di ogni ius soli, tutte le donne e gli uomini che hanno messo il piede sulla nostra terra.
L’Europa è a una svolta: se continuerà a restare inerte di fronte al dramma dell’immigrazione nel Mediterraneo, o, peggio ancora, a pensare a difendersi, a credere che quella dei migranti sia un’emergenza di passaggio, a dire in maniera sibillina ed egoista che ‘bisogna aiutarli a casa loro’ o a provare a distinguere tra ‘migranti economici’ e ‘rifugiati politici’, allora l’Europa affretterà il tempo della propria distruzione. Perché la diversità è la sua stessa ragion d’essere, e venuta meno questa, dell’Europa non rimarrà nemmeno una (già inesistente) espressione geografica.
Ma soprattutto a noi interessa stamattina che non si usi la religione come scudo di questa corsa alla chiusura e alla durezza, all’insensibilità al grido dei poveri, che non si dica che bisogna difendere l’identità religiosa culturale e religiosa dell’Europa o dell’Italia, come se la religione fosse un marchio o una cosa. Chi pensa l’identità così lo fa per ignoranza o per malizia, non capendo che essere europei significa essere donne e uomini degni e liberi, e che le religioni sono la via dell’apertura, il motivo simbolico dell’accoglienza.
Il nostro dialogo di oggi è la testimonianza viva che le religioni ci fanno fratelli, e da lì dobbiamo ripartire per comprendere il senso attuale del nostro essere al mondo, tra gli uomini, nell’umiltà e nel servizio. Sono convinto che ognuno di voi è qui perché vive così la sua appartenenza religiosa, non come chiusura ma come apertura. Sono convinto che cammineremo ancora insieme per fare di Palermo una città dove la convivenza pacifica sarà il culto comune che, seppur con linguaggi diversi, renderemo a Dio; il vero contributo che daremo alla meravigliosa città di S. Rosalia, alla sua crescita, alla sua cultura, alla sua economia, alla sua arte, ai suoi variegati e inediti colori, odori, sapori.
Un grande, fraterno e affettuoso abbraccio a tutti.
Mons. Corrado Lorefice
è un grande onore per me accogliervi qui stamattina, ancora una volta. Avverto in questo nostro appuntamento, ormai, un senso di nascente consuetudine, di prossimità familiare.
Non un evento eccezionale, il nostro, ma bensì un ritrovarsi che ha il profilo di ciò che è normale, che è nell’ordine delle cose, che ha i contorni del quotidiano. Dico «quotidiano» non a caso, perché vogliamo tutti sottrarre il nostro incontro ai paludamenti della retorica. Il riferimento al “quotidiano” sta ad indicare che intendiamo incontrarci per quel che siamo davvero, nella nostra esistenza comune, lì dove, nel flusso dei giorni, veniamo messi alla prova e riveliamo noi stessi nella verità.
E se il tempo è il quotidiano, lo spazio è la casa. I giorni conoscono i picchi dei grandi luoghi, delle piazze e dei palazzi, ma la loro consistenza ultima è domestica. Viviamo il quotidiano nello spazio di una casa, che ci consente l’immediatezza, che ci invita alla nudità. La casa ci precede, perché la casa non è un possesso ma un dono. Riceviamo la casa quando nasciamo, ce la troviamo prima di ogni scelta. La casa non è una proprietà ma un bene per sua natura da condividere. In una casa si entra quando si è stanchi; ad una casa ci si rivolge quando ci si trova nel dolore, nella prova; in casa si fa festa, nei momenti di gioia, nelle ricorrenze (e tutti sappiamo bene quale sapore diverso, quale gusto inimitabile abbia la festa fatta in casa); ci vuole sempre una casa per morire con dignità.
Ma non solo. Per quel che mi riguarda, essere il vescovo di Palermo – della Chiesa di S. Rosalia e del Beato Giuseppe Puglisi – vuol dire prima di ogni cosa essere un discepolo di Gesù di Nazareth, credere in colui che ci ha mostrato il volto accogliente di Dio, il suo essere pura apertura all’altro, senza discriminazioni e senza barriere; un Dio, quello che si è rivelato in Gesù, che non teme la distanza, non ha paura nemmeno del peccato o del rifiuto, poiché non può non accogliere, non può cioè rinnegare se stesso. Ai cristiani non è dato di avere una casa come un tesoro geloso. La casa dei cristiani deve essere la casa di tutti. Voi siete padroni di casa e ospiti con me, in questo spazio che mi è stato donato. Vi giunga il mio abbraccio affettuoso.
Sì, un abbraccio qui, oggi, in un tempo come il nostro, in cui molti vorrebbero fare delle religioni un vessillo identitario, separando le donne e gli uomini in base alla loro fede, al loro credo. C’è una tensione fortissima e diffusa a trasformare l’esperienza religiosa in un modo per distinguersi e per contraddirsi a vicenda. Come se la religione potesse essere la bandiera che un popolo sventola contro un altro popolo, il segno di una diversità irrimediabile. Certo, nessuno di noi vuole negare e nessuno si scandalizza della valenza culturale del fatto religioso, che entra nelle pieghe di una comunità e arriva a plasmare la vita familiare, sociale, gli usi e i costumi di civiltà variegate. Noi non abbiamo paura di essere diversi. Noi temiamo e contrastiamo con forza tutti coloro che vogliono rendere la diversità un ostacolo insormontabile all’incontro.
Care Sorelle, Cari Fratelli, questa è una forma di miopia grandissima. Perché la bellezza di ogni incontro consiste proprio nella diversità dell’altro: io mi nutro della tua presenza in quanto essa mi dà e mi comunica qualcosa che io non ho e non sono. Il contatto è un’avventura esaltante quando rappresenta la scoperta e il confronto con il diverso da me. La differenza arricchisce, l’omologazione e la chiusura impoveriscono, inaridiscono e uccidono.
Permettetemi per questo stamattina di gridare insieme a voi che i progetti di divisione sono il frutto di una mentalità bacata e distorta – noi la chiamiamo ‘tentazione demoniaca’ –, che pensa di poter usare la religione come uno strumento di forza e di morte. Sappiano questi Signori della Divisione – si trovino dentro o fuori dalle Chiese, dentro o fuori dalle Moschee, dentro o fuori dalle Sinagoghe, dentro o fuori da ogni luogo di culto – che essere religiosi significa mettere la propria vita nelle mani di un Altro, comunque lo si voglia concepire: una persona, una parola, un oltre; e che dunque essere religiosi vuol dire sentirsi poveri, bisognosi, aperti e non chiusi, umili e non tronfi e orgogliosi come dei Narcisi! Vuol dire essere com-pagni (cum, “insieme con” e panis, “pane”: «colui che mangia il pane con un altro») e non individui isolati. Sappiano tutti costoro – e noi ce lo ripetiamo quest’oggi – che essere religiosi significa essere amici della vita, perché la religione, quando non viene distorta e dunque tradita, è, in modi e con linguaggi diversi, un inno alla bellezza del mondo, una tensione verso un compimento, l’espressione di un desiderio di pienezza. Non si possono alzare muri in nome della religione! Con la religione non si possono fare guerre! Nessuno può essere ucciso in nome di Dio e nessuno può pensare di uccidere facendosi scudo di un Credo, perché la fede deve essere sorgente della pace sotto ogni cielo!
Ecco il motivo per cui oggi noi siamo qui, a condividere questo momento. Per dire sì all’altro, per dirci di sì l’un l’altro, per levare un canto all’umanità e alla vita. Ma non può trattarsi di un principio astratto. Se leviamo il canto – come abbiamo fatto all’inizio –, siamo chiamati al contempo a levare la nostra voce in difesa di tutti coloro a cui il canto è sottratto, per i quali la bellezza è distrutta, e la cui vita è sfregiata. E non è un caso che sia Palermo ad ospitarci quest’oggi. Palermo è infatti l’opposto di ogni muro, la sua assoluta negazione. Palermo è un porto a cui si può approdare. La Palermo di Rosalia, liberata dalla peste dell’insensibilità e della paura. I tanti fratelli che dal Sud del mondo affrontano pericoli inenarrabili per giungere sulle coste della Sicilia rappresentano per noi oggi l’appello all’accoglienza della diversità che abbiamo appena evocato. E Palermo è il segno vivente dell’ascolto di questo appello, perché Palermo non si risparmia e non si è risparmiata, facendo diventare cittadini, prima di ogni ius soli, tutte le donne e gli uomini che hanno messo il piede sulla nostra terra.
L’Europa è a una svolta: se continuerà a restare inerte di fronte al dramma dell’immigrazione nel Mediterraneo, o, peggio ancora, a pensare a difendersi, a credere che quella dei migranti sia un’emergenza di passaggio, a dire in maniera sibillina ed egoista che ‘bisogna aiutarli a casa loro’ o a provare a distinguere tra ‘migranti economici’ e ‘rifugiati politici’, allora l’Europa affretterà il tempo della propria distruzione. Perché la diversità è la sua stessa ragion d’essere, e venuta meno questa, dell’Europa non rimarrà nemmeno una (già inesistente) espressione geografica.
Ma soprattutto a noi interessa stamattina che non si usi la religione come scudo di questa corsa alla chiusura e alla durezza, all’insensibilità al grido dei poveri, che non si dica che bisogna difendere l’identità religiosa culturale e religiosa dell’Europa o dell’Italia, come se la religione fosse un marchio o una cosa. Chi pensa l’identità così lo fa per ignoranza o per malizia, non capendo che essere europei significa essere donne e uomini degni e liberi, e che le religioni sono la via dell’apertura, il motivo simbolico dell’accoglienza.
Il nostro dialogo di oggi è la testimonianza viva che le religioni ci fanno fratelli, e da lì dobbiamo ripartire per comprendere il senso attuale del nostro essere al mondo, tra gli uomini, nell’umiltà e nel servizio. Sono convinto che ognuno di voi è qui perché vive così la sua appartenenza religiosa, non come chiusura ma come apertura. Sono convinto che cammineremo ancora insieme per fare di Palermo una città dove la convivenza pacifica sarà il culto comune che, seppur con linguaggi diversi, renderemo a Dio; il vero contributo che daremo alla meravigliosa città di S. Rosalia, alla sua crescita, alla sua cultura, alla sua economia, alla sua arte, ai suoi variegati e inediti colori, odori, sapori.
Un grande, fraterno e affettuoso abbraccio a tutti.
Mons. Corrado Lorefice