La dichiarazione con cui Salvini ha comunicato la decisione della Lega di porre fine al “governo del cambiamento” ha sorpreso solo chi aveva creduto alle reiterate assicurazioni dello stesso Salvini e dell’altro vicepremier, Di Maio, sulla sicura tenuta dell’esecutivo fino alla scadenza della legislatura.
A confortare questa illusione ottica era il perdurante, eccezionale consenso di cui questo governo ha fin dall’inizio goduto da parte di più di metà degli italiani, soddisfatti evidentemente dei risultati ottenuti in poco più di un anno («Abbiamo lavorato bene insieme», aveva detto appena qualche giorno fa il leader dei 5stelle).
E del resto, l’assenza di una vera opposizione – sia per il Pd che per Forza Italia le elezioni del 4 marzo 2018 hanno segnato l’inizio di una lunga crisi interna, che ha paralizzato entrambi – rendeva plausibile che il cammino del governo dovesse essere una marcia senza ostacoli sulla via del radicale rinnovamento promesso dai vincitori in campagna a elettorale.
I “giornaloni” forse andavano letti…
In realtà, così non è stato. Con buona pace delle fiduciose aspettative della maggioranza degli italiani, i “giornaloni” e i “professoroni” da tempo sapevano che il ministro degli Interni, quando i sondaggi avessero attributo al suo partito la percentuale di consensi vicina al 40% sufficiente per governare da solo, avrebbe “staccato la spina” all’esecutivo.
Anche se questo avesse dovuto risultare – come sta risultando – disastroso per le sorti del nostro Paese (spread in crescita libera, immagine internazionale indebolita alle soglie della nomina di un commissario europeo, etc.).
«Per la prima volta nella storia…»
Ma il problema non è Salvini, bensì ciò che ha reso possibile la sua scelta e che ha a che fare con la natura di questo governo fin dalla fase della sua costituzione.
«Per la prima volta nella storia», aveva trionfalmente dichiarato allora Di Maio, «si porta avanti una trattativa che mette al centro i temi che rappresentano tutte le esigenze degli italiani e questo ci rende ancora più orgogliosi».
Il nuovo governo veniva presentato come un inizio assoluto, a partire da zero. Nessuna concessione all’ipotesi che altri avessero potuto, prima d’allora, avere a cuore il bene della gente e non il proprio, che, accanto a tanti errori e a tante prevaricazioni, ci fossero state anche scelte giuste, misure appropriate, progetti condivisibili, che avevano fatto dell’Italia l’ottava potenza economica del mondo e una delle più rispettate protagoniste dell’Unione Europea.
Di fronte alle luminose figure di Di Maio e Salvini, sparivano uomini di Stato come De Gasperi, Dossetti, Moro, e tanti altri che hanno ricostruito l’Italia dalle macerie della guerra, gestendo un enorme consenso popolare (ben maggiore di quello dei 5stelle e della Lega), ma restando poveri – De Gasperi, quando andò negli Stati Uniti, dovette farsi prestare un cappotto – e fedeli al loro impegno di servire il Paese…
Ignoranza della storia, ma anche mascheramento di una contraddizione
Non si trattava solo di una ridicola presunzione, fondata sull’ignoranza della storia. Questa pretesa di cominciare da zero da una parte giustificava il disprezzo, di marca populista, verso le istituzioni e le regole che la nostra Repubblica aveva costruito negli anni, dall’altra mascherava il fatto che, dietro l’insegna luminosa del cambiamento, stavano due forze politiche radicalmente eterogenee, anche se convergenti in quel disprezzo.
Una, quella dei 5stelle, aveva il diritto di definirsi “nuova” e il suo misconoscimento del passato, per quanto unilaterale e fanatico, nasceva comunque dal suo essere stata sempre estranea alla politica tradizionale.
Diversissima la situazione dell’altra forza, quella della Lega, che invece aveva avuto un ruolo fondamentale in molti governi della Seconda Repubblica come alleata di Berlusconi, e le cui grida contro il malgoverno e la corruzione del passato servivano soprattutto a far dimenticare che di questo passato essa era pienamente responsabile.
Vincitori e vinti
Di questi due soggetti del “rinnovamento”, il primo, che ha effettivamente cercato di farlo, ma pagando il prezzo dell’incompetenza e della mancanza di esperienza politica, ha perso; l’altro, che ha puntato sulle passioni tipiche della conservazione – la paura dell’altro e il bisogno di sicurezza – ha vinto.
I fatti hanno dimostrato che l’idea populista secondo cui l’“uomo della strada”, espressione del popolo, può benissimo governare era sbagliata. Luigi Di Maio, che configurava questo modello, è stato sovrastato e travolto da un “figlio della casta” del passato, come Salvini, che oggi si può permettere di gettarlo via come un limone spremuto dopo avergli fatto rimangiare il 90% del suo programma, giusto o sbagliato che fosse, volto al “rinnovamento”.
Tutti gli osservatori, ripeto, lo prevedevano. In questo senso si può ben dire che quello dei 5stelle è stato un suicidio annunciato…
Il declino del Parlamento…
Eppure qualcosa di vero c’è, nella trionfante dichiarazione del leader dei 5stelle.
Qualcosa stava accadendo, in Italia, «per la prima volta nella storia». Per la prima volta la partitocrazia – il prevalere dei partiti, o, meglio, delle loro oligarchie interne, sulle logiche parlamentari previste dalla Costituzione – si esibiva in tutta la sua rozza pretesa di potere, senza neppure tentare di mascherarsi, come era accaduto nel recente passato.
Due leader di partito stavano decidendo tra loro, con un “contratto” privato (si legga il testo, che parla dell’accordo tra due “signori”!), cosa avrebbe votato il Parlamento, sostituendosi ai deputati e ai senatori eletti dal popolo, anzi senza discutere, senza neppure consultarli, facendo piuttosto affidamento alle acclamazioni nelle piazze e dei consensi espressi da poche migliaia di iscritti alla “piattaforma Rousseau”.
…E del governo
Già allora, peraltro, si capiva che neppure il governo avrebbe nulla da fare, se non eseguire le direttive dei due “capetti” vincitori delle elezioni.
Era questa l’inevitabile conseguenza del capovolgimento della prassi per la sua formazione, che prevede, a norma di Costituzione, la nomina di un premier a cui viene affidata la scelta dei ministri e la formulazione del programma.
Ormai – questo sì, «per la prima volta nella storia», almeno italiana – il presidente del Consiglio avrebbe avuto un ruolo di esecutore o, nella migliore delle ipotesi, di mediatore tra i veri potenti. E così è stato, fino al punto che uno di loro, Salvini, ha potuto dichiarare pubblicamente che quello che pensava Conte, il premier in carica, gli interessava «meno di zero».
Perfino il sottoscritto l’aveva previsto!
Tutte queste cose erano chiare, già allora, anche a un semplice osservatore come il sottoscritto.
Chi volesse, potrà ritrovarle anticipate, in questi stessi termini, nei miei due chiaroscuri «La trattativa di governo: la tragedia e la farsa», del maggio 2018, e «La tragedia e/o la farsa: atto secondo», del giugno successivo.
Ricordo l’ondata di commenti furiosi che mi accusarono di giudicare un governo prima ancora che nascesse: «Lasciateli lavorare», gridavano queste voci.
Senza rendersi conto che, quando c’è un errore nelle fondamenta, non è pessimismo ma realismo prevedere il crollo dell’edificio.
L’opposizione inesistente
Da qui anche l’accusa di essere evidentemente colluso con i “poteri forti” e col Pd…
A proposito del Pd, la tragedia/farsa non aveva come protagonisti solo i “vincitori”. Quello che un tempo ormai remoto era stato, nel bene o nel male, un partito “dei lavoratori”, appariva in questa fase post-elettorale esclusivamente interessato a parlare di se stesso, dei suoi equilibri interni di potere, salvo a rilanciare ogni tanto, credendole “di sinistra”, le battaglie sui temi etici che lo avevano sempre più visto paladino dei diritti civili, in sé legittimi, ma assecondando senza riserve la deriva individualista della società neocapitalista e trascurando ampiamente i diritti sociali.
Per non parlare di Forza Italia, incatenata al “lungo addio” del suo leader e condizionata dall’assurda posizione a cui la condannava il suo doppio ruolo di alleata della Lega nelle elezioni e di sua oppositrice in Parlamento.
Ma in democrazia nessuno ha «pieni poteri»
Quale la prospettiva? «Chiedo agli italiani di darmi pieni poteri» ha detto Salvini annunciando la sua volontà di ricorrere alle lezioni. Forse qualcuno avrebbe dovuto spiegargli, già alla nascita del governo, che i pieni poteri la Costituzione italiana non li prevede per nessuno e che invocarli ricorda un’altra stagione, quella dalle cui rovine la nostra Repubblica è nata.
Se lo avessero fatto, forse il nostro ministro degli Interni non avrebbe sistematicamente travalicato le sue competenze sostituendosi ripetutamente al ministro delle Infrastrutture (a cui competerebbe la chiusura dei porti), a quello degli Esteri (a cui competerebbero i rapporti con l’Europa), a quello dell’Economia (a cui competerebbe la gestione del deficit e del sistema fiscale), a quello della Difesa (a cui competerebbe il controllo della nostra marina militare), a quello dell’Istruzione (a cui competerebbe garantirei la libertà di insegnamento).
Che ciò purtroppo sia avvenuto, senza bisogno di una legittimazione elettorale, non lascia sperare bene per il futuro, ove questa legittimazione ci fosse. Perché allora dovremmo fare la cronaca non solo del suicidio annunciato dei 5stelle, ma di quello della nostra democrazia.